STRETTO DI HORMUZ. Il blocco dello Stretto non tocca gli USA

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Lo Stretto di Hormuz è da tempo simbolo della vulnerabilità energetica globale. Estendendosi a malapena per 39 chilometri nel suo punto più stretto, tra Iran e Oman, convoglia quasi il 20% delle riserve mondiali di petrolio e oltre un terzo del gas naturale liquefatto. Qualsiasi minaccia di chiusura, retorica o reale, innesca inevitabilmente allarmi nei mercati energetici.

Il paradosso strategico è tutto racchiuso nell’ininfluenza della sua chiusura sull’economia statunitense. Dall’inizio degli anni 2010, gli Stati Uniti hanno intrapreso un percorso verso l’autosufficienza energetica. Il boom dello scisto ha trasformato gli Stati Uniti da importatore netto a uno dei principali produttori di petrolio al mondo. Secondo l’Energy Information Administration (EIA) statunitense, meno del 10% delle importazioni di greggio proviene ora dal Golfo Persico, riporta AT.

Inoltre, gli Stati Uniti si sono rafforzati con una Riserva Strategica di Petrolio (SPR) in grado di smorzare gli shock di approvvigionamento in periodi di crisi geopolitica. Sebbene parzialmente esaurita durante le crisi in Ucraina e Gaza, la SPR rimane uno scudo economico vitale.

Questo cambiamento strutturale ha ridotto drasticamente la vulnerabilità dell’America alle turbolenze nel Golfo, a differenza degli shock petroliferi degli anni ’70, in cui l’embargo dell’OPEC causò un’inflazione e una recessione diffuse. L’indipendenza energetica è diventata un pilastro della fiducia strategica degli Stati Uniti, soprattutto con la rinnovata enfasi dell’amministrazione Trump sul nazionalismo delle risorse e sulla diplomazia transazionale.

Ma per l’amministrazione Trump qualsiasi escalation regionale nel Golfo può essere sfruttata come un’escalation controllata. Quando Stati Uniti e Israele hanno lanciato attacchi aerei contro i siti nucleari iraniani di Fordow, Natanz e Isfahan nel giugno 2025, la previsione della chiusura iraniana dello stretto era probabilmente già scontata, non solo dai mercati ma anche dai decisori politici. Una tale perturbazione rafforza la posizione geopolitica di Washington. Il predominio navale statunitense, in particolare attraverso la Quinta Flotta di stanza in Bahrein, consente agli Stati Uniti di presentarsi ancora una volta come il garante della libertà marittima.

Alleati come Giappone, Corea del Sud e India, che dipendono fortemente dall’energia del Golfo potrebbero rafforzare gli accordi di sicurezza con Washington. Nel frattempo, i produttori americani di GNL potrebbero trarne vantaggio. Non si tratta solo di una questione di sicurezza, ma di una occasione economica unica per gli States.

Se anche una chiusura di Hormuz potrebbe far salire i prezzi globali del petrolio, anche per i consumatori statunitensi, l’economia statunitense nel suo complesso, ora trainata più dai servizi, dall’innovazione digitale e dal capitale finanziario che dalla dipendenza dai combustibili fossili, può assorbire questi shock. La Federal Reserve statunitense, dotata di strumenti monetari e di analisi dei dati in tempo reale, ha ripetutamente dimostrato agilità nello stabilizzare le aspettative inflazionistiche.

Andrebbe peggio per Pechino: la Cina, maggiore importatore di energia al mondo, fa affidamento sul petrolio del Golfo per sostenere la sua produzione industriale e lo sviluppo urbano. Nonostante gli sforzi per diversificare le fonti, Pechino rimane strutturalmente dipendente da rotte marittime che non controlla militarmente. Le minacce dell’Iran di bloccare lo Stretto di Hormuz mettono la Cina in una situazione strategica difficile: il suo principale fornitore di petrolio, l’Iran, rappresenta anche la sua potenziale responsabilità e la sua vulnerabilità marittima rimane irrisolta.

A gradi diversi anche India, Giappone e Corea del Sud affrontano rischi simili. Nel Sud-est asiatico, l’impatto è sfumato ma preoccupante. L’ASEAN dipende in varia misura dal petrolio mediorientale. La volatilità dei prezzi dell’energia esacerberebbe le pressioni fiscali, soprattutto nelle economie che già si trovano ad affrontare oneri debitori post-pandemici.

Tuttavia, l’ASEAN ha iniziato a ricalibrare la propria posizione strategica. Questa ricalibrazione non è solo economica, ma anche diplomatica. Il recente impegno dell’ASEAN sia con il Consiglio di Cooperazione del Golfo che con la Cina nei forum trilaterali riflette uno sforzo consapevole per allentare le tensioni attraverso il dialogo. Il vertice ASEAN-CCG-Cina e la diplomazia Track 1.5 forniscono una piattaforma per risposte coordinate che preservino la stabilità economica senza ricorrere alla militarizzazione.

Luigi Medici 

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