
Fra dichiarazioni incendiarie verso alleati e avversari, sarà necessario fare i conti con l’imprevedibilità di Donald Trump. Bluff tattico o meno, questa sarà reale nelle sue conseguenze. Gli occhi del mondo puntati su Ucraina e Taiwan.
All’indomani del secondo insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, è ormai un fatto chiaro agli Stati Uniti (e al mondo) che il trumpismo non è una singolarità né un’aberrazione della politica americana. A differenza del 2016, il popolo statunitense ora ha piena consapevolezza dello stile irruento ed imprevedibile che The Donald ha di fare politica.
L’approccio “America First” della politica estera statunitense – per il quale qualunque impegno americano con un attore esterno deve necessariamente portare nel breve termine e in modo immediatamente riconoscibile vantaggi per gli USA (o per Trump stesso) – definirà le relazioni internazionali per il prossimo futuro.
A dire il vero, questo era evidente ben prima del 5 novembre, l’ultimo election day. La prima amministrazione Trump, infatti, ha lasciato in eredità alcuni elementi che sono diventate delle pietre miliari della politica estera americana. Basti pensare a come Joe Biden abbia approfondito la rivalità con la Cina, proseguito i processi di re-shoring delle imprese americane e di de-risking delle catene del valore. O a come non abbia invertito la rotta dopo il clamoroso rifiuto di Trump di ratificare il TPP, un accordo di libero scambio fra numerosi paesi dell’Indopacifico negoziato da Barack Obama.
Questa volta il Presidente utilizzerà in modo ancora più diretto e personale il potere esecutivo. Non solo la precedente esperienza di governo lo renderà meno dipendente dai suggerimenti del suo entourage (questa volta quasi solo fedelissimi e accuratamente selezionati yes-man, talvolta dichiaratamente inadeguati), ma i fendenti del nuovo Dipartimento per l’Efficientamento del Governo (DOGE) guidato da Elon Musk rimuoveranno i vincoli indesiderati provenienti dallo “Stato profondo”.
Ad ogni modo, mentre il mondo si prepara alla nuova amministrazione Trump, regna un clima di “imprevedibilità”, una delle parole più usate dagli osservatori negli scorsi mesi. Lo stesso Presidente entrante non ha fatto mistero di voler usare l’imprevedibilità come strumento di politica estera o addirittura di voler sembrare un pazzo agli occhi degli avversari (ma anche degli alleati) per partire da una posizione di forza nei negoziati. Non sono mancate dichiarazioni incendiarie e disorientanti: The Donald ha detto che gli Stati Uniti non difenderanno i paesi NATO che spendano meno del 5% del loro PIL per la difesa, ha espresso la sua volontà di acquistare la Groenlandia e di annettere Canada e canale di Panama (con le buone o con le cattive), ha detto che Xi Jinping non oserà attaccare Taiwan durante la sua presidenza perché sa che “sono fottutamente pazzo” e via discorrendo.
Ancora prima dell’insediamento ufficiale, questo approccio sembra aver portato i suoi frutti. Al netto di tutte le altre considerazioni relative allo stato tattico della guerra fra Israele e Hamas, in molti concordano sul fatto che Donald Trump abbia giocato un ruolo chiave per il raggiungimento del cessate il fuoco, grazie alla pressione esercitata su tutti gli attori coinvolti ripetendo più volte che se non si fosse raggiunto un accordo prima del suo insediamento avrebbe “scatenato l’inferno” in Medio Oriente.
Ora gli occhi del mondo sono puntati sugli altri fronti “caldi” del panorama internazionale. Fra tutti, la guerra in Ucraina e le relazioni con la Cina, con le relative implicazioni per la sicurezza di Taiwan. Non è ancora chiaro come Trump agirà in Ucraina. Agli occhi del tycoon, il prolungarsi della guerra potrebbe apparire, forse correttamente, come un’umiliazione della deterrenza e quindi del potere americano. Durante la campagna elettorale si è detto convinto di poter terminare il conflitto in un giorno, forte anche del suo rapporto personale con Putin, ma non ha elaborato sulle modalità. Dai vari indizi provenienti dai suoi collaboratori e dallo stesso Presidente designato sembra comunque delinearsi un quadro che prevedrebbe il congelamento delle linee di fronte attuali, la continuazione (seppur limitata) degli aiuti militari a Kiev come leva negoziale, e l’esclusione della possibilità per l’Ucraina di entrare nella NATO, almeno per il momento. Probabilmente, il piano di pace includerebbe anche l’istituzione di una zona demilitarizzata, la cui sorveglianza sarebbe affidata alle forze armate dei paesi europei, in linea con il ridimensionamento dell’impegno americano tipico del pensare “America First”. Nonostante la sicurezza nelle proprie doti di deal-maker, per Donald Trump una delle sfide più difficili sarà quella di portare gli Ucraini e soprattutto i Russi al tavolo delle trattative. Mentre Kiev sarebbe facilmente convinta di fronte all’ipotesi di una cessazione degli aiuti militari americani, Mosca non ha alcuna fretta di raggiungere un accordo. Un eventuale rifiuto russo di negoziare innescherebbe sicuramente reazioni forti da parte della nuova amministrazione per piegare la reticenza di Mosca al volere americano.
La squadra di Trump sta già preparando piani per pesanti sanzioni nel settore petrolifero e non si può escludere un rafforzamento consistente del sostegno militare a Kiev. In che modo questo approccio si distinguerà da quello mantenuto finora dall’amministrazione Biden e quanto sarà efficace rimane imprevedibile, così come rimangono imprevedibili le altre possibili mosse di Donald Trump per convincere Mosca a trattare.
Le relazioni USA-Cina sono un altro grattacapo per quanti si domandano cosa succederà sotto la nuova amministrazione americana. Da un lato, infatti, Trump è stato il presidente che ha posto fine alla strategia americana dell’engagement con la Cina, inaugurando quella del containment. Durante la sua prima amministrazione, la Cina è stata definita per la prima volta una “potenza revisionista” e un “rivale strategico”. La rivalità fra le due superpotenze è stata definita come “competizione onnicomprensiva” per via delle numerose dimensioni coinvolte: quella ideologica, quella commerciale, sulla proprietà intellettuale e sulle tecnologie critiche, ma soprattutto la dimensione strategica nell’Indopacifico, con nodo cruciale nello stretto di Taiwan.
Effettivamente, le nomine a posizioni chiave di “falchi” sul dossier cinese come Marco Rubio (segretario di stato), Michael Waltz (consigliere per la sicurezza nazionale) e Elbridge A. Colby (vicesegretario della difesa) suggeriscono il mantenimento di una linea dura nei confronti di Pechino. Allo stesso modo, le dichiarazioni di Trump sulla volontà di imporre dazi fino al 60% sui beni importati dalla Cina sembrerebbero confermare la strategia di contenimento del Dragone. Tuttavia, questa volta la narrazione anti-cinese si è concentrata sul ruolo di Pechino nell’inondazione di fentanyl negli USA e sul deficit commerciale. Grandi assenti, invece, le considerazioni geostrategiche. Inoltre, cifra caratteristica di Trump 2.0 è il sodalizio con Elon Musk e più in generale con il settore big tech, i quali interessi nel mantenere o espandere le proprie operazioni in Cina sono vitali e potrebbero divergere dalle questioni di sicurezza nazionale.
Questa divergenza di interessi porterà ad una rottura fra Trump e Musk, o ammorbidirà la linea dura del Presidente entrante nei confronti di Pechino? La possibilità di questo “corso inverso” è simboleggiata dalla parabola di TikTok: fu proprio Donald Trump ad emettere nel 2020 il primo ordine esecutivo per bandire l’applicazione negli Stati Uniti per sospetto di spionaggio; è sempre lui che adesso, fiutatene le possibilità di guadagno economico e in visibilità mediatica, sta cercando di salvarla da una legge approvata in Congresso e difesa dalla Corte Suprema che ne impone il divieto.
In questo clima incerto, Taiwan non dorme sonni tranquilli. In un’intervista con Bloomberg, Trump ha espresso insofferenza nel dover difendere una terra così lontana, e che secondo il Presidente eletto è colpevole di aver sottratto l’industria dei microchip agli Stati Uniti. In altre occasioni, ha intimato a Taiwan di aumentare fino al 10% del PIL la spesa militare (che al momento si aggira intorno al 2,5%) e che punirebbe Pechino con dazi altissimi se decidesse di attaccare, non facendo però menzione dell’intervento americano.
Oltre che dal ruolo geostrategico di sigillo alle aspirazioni talassocratiche della Repubblica Popolare Cinese, Taiwan ha storicamente derivato la sua rilevanza da questioni ideologiche (democrazia opposta al totalitarismo) e dal suo status di più grande produttore di microchip al mondo. Nella politica estera trumpiana, guidata dall’opportunità più che dai valori, la difesa della democrazia appare piuttosto irrilevante, anche considerando la stima che Trump nutre verso leader autoritari come Xi e Putin. Il quasi monopolio nella produzione di chip, invece, sembra adesso più un ostacolo che una risorsa. Per essere chiari, il sostegno militare esplicito verso Taiwan è un’eccezione più che la regola nella politica statunitense. Inoltre, il segretario di stato designato di Trump, Marco Rubio, ha recentemente espresso di fronte al Senato la convinzione che difendere Taiwan sia “cruciale” per gli Stati Uniti.
Insomma, si tratta di un genuino ridimensionamento delle responsabilità degli Stati Uniti in Asia o di mere tattiche per rinegoziare i termini dell’impegno americano nella regione? Qualunque sia la risposta, seppur remota, la possibilità che Taiwan diventi una vittima sacrificale in un grande accordo fra Cina e Stati Uniti o che questi ultimi non intervengano in caso di attacco cinese, ora, esiste.
Valerio Morale
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