STATI UNITI. Dopo Mattis arriva Lloyd Austin III al Pentagono

336

Nonostante la principale indiziata per il ruolo di Segretario della Difesa fosse Michele Flournoy – sottosegretario per la politica durante l’Amministrazione Obama e co-direttrice del think tank Center for a New American Security – la scorsa settimana il presidente eletto Joe Biden ha scelto l’ex generale dello US Army Lloyd Austin III come capo del Pentagono. Se confermato dal Senato, sarà il primo afroamericano a ricoprire tale ruolo.

Il generale Lloyd Austin è stato il 12° Comandante dello US Central Command, ritirandosi come generale a quattro stelle nel 2016 dopo oltre 40 anni di servizio militare. Il futuro capo del Pentagono ha guidato la progettazione e l’esecuzione della campagna militare per sconfiggere lo Stato Islamico in Iraq e in Siria. In qualità di comandante generale delle Forze Armate degli Stati Uniti di stanza in Iraq, è stato responsabile del più grande sforzo logistico dell’esercito in oltre 60 anni, quando ha supervisionato il rimpatrio delle forze militari statunitensi e della Coalizione Internazionale che erano presenti in Iraq. Al Pentagono, invece, il generale Austin ha servito come capo delle Operazioni congiunte e come direttore del Joint Staff.

Negli scorsi giorni non sono mancate critiche alla scelta di Biden che, prontamente, ha pubblicato un editoriale sul The Atlantic spiegando le ragioni di tale nomina. Il presidente eletto ha detto di aver scelto Lloyd Austin perché «so come reagisce sotto pressione e so che farà tutto il necessario per difendere il popolo americano. Quando lo Stato Islamico è emerso come minaccia terroristica in Iraq e Siria, mettendo in pericolo la sicurezza del popolo e degli alleati americani, il presidente Obama ed io ci siamo rivolti proprio a lui che allora guidava lo US CENTCOM. Ha progettato ed eseguito la campagna che alla fine ha respinto Daesh, contribuendo a costruire una coalizione di partner ed alleati di oltre 70 paesi che hanno lavorato insieme per sconfiggere il nemico comune».

Successivamente, nell’editoriale, Biden fa una panoramica del contesto strategico in cui si troverà a lavorare l’ex generale a quattro stelle: «Le minacce che affrontiamo oggi non sono le stesse di quelle che abbiamo affrontato 10 o anche cinque anni fa. Dobbiamo prepararci ad affrontare le sfide del futuro, non continuare a combattere le guerre del passato. Dobbiamo costruire una politica estera che guidi con la diplomazia e rivitalizzi le nostre alleanze, rimettendo al tavolo la leadership americana e radunando il mondo per affrontare le minacce globali alla nostra sicurezza, dalle pandemie al cambiamento climatico, dalla proliferazione nucleare alla crisi dei rifugiati».

Agli elogi da parte del presidente eletto però non sono mancate le critiche da parte di alcuni addetti ai lavori ed esperti del mondo della difesa. Molti critici infatti si chiedono se l’ex generale abbia le capacità politiche per combattere i tagli al budget militare e se la sua inesperienza politica lo possa danneggiare in un confronto tecnologico-militare con una Cina sempre più assertiva. Inoltre, Austin dovrà affrontare anche sfide all’interno del Pentagono, dove gli analisti affermano che erediterà un’istituzione messa a dura prova dalla politicizzazione dell’Amministrazione Trump.

Come fu per Jim Mattis – Segretario della Difesa dell’Amministrazione Trump dal 2017 al 2019 – lo stesso accadrà anche per Austin. Infatti, con l’introduzione del National Security Act del 1947 – legge con cui venne creato ufficialmente il Dipartimento della Difesa – un ufficiale deve aver lasciato il servizio da almeno 7 anni per poter diventare capo del Pentagono. Non è questo il caso del generale Austin ritiratosi nel 2016, così come non lo fu per Mattis; allora però il Congresso concesse una deroga e Biden si è dichiarato fiducioso al riguardo. Non a caso, in suo recente discorso ha riportato proprio il caso di Mattis mostrandosi sicuro sull’ufficialità di Austin il 20 gennaio.

Nonostante i tanti dubbi, ma anche i tanti elogi, Biden non ha dubbi sulla sua scelta. È troppo presto per ulteriori giudizi e commenti; saranno il tempo e i risultati a parlare. Una cosa è certa: Pechino resta la priorità strategica anche per l’Amministrazione democratica.

Redazione