Domenica sera si è conclusa l’impasse costituzionale, politica e strategica che durava da più di un anno e che ha messo a rischio la tenuta sociale, politica e militare della Somalia e il proseguimento del processo di costruzione dello Stato somalo. Con l’elezione del presidente Hassan Sheikh Mohamud si chiude la presidenza dell’uscente e sconfitto presidente Mohamed Abdullahi Mohamed detto Farmaajo. Bisogna dire prima di tutto che il passaggio di consegne tra i due presidenti, così come è stato già cinque anni fa, è avvenuto in modo pacifico. Di fondo, le schermaglie politiche della campagna elettorale sono scivolate via a conferma dell’importanza delle relazioni claniche prim’ancora che della politica.
Il ritorno alla presidenza di Hassan Sheikh Mohamud (già presidente e predecessore di Farmaajo) chiude un processo elettorale fatto di ritardi, di tentativi di golpe da parte del presidente Farmaajo e di scontri con le autorità degli Stati Federali che compongono la Somalia. Basti pensare che il mandato presidenziale di Farmaajo era arrivato a termine l’8 febbraio del 2021 e Farmaajo aveva tentato di farsi prolungare il tempo al potere dal Parlamento, senza riuscirci, polarizzando la politica tra suoi favorevoli e contrari.
Il processo elettorale è durato più di un anno ed è stato frutto di notevole opera di negoziazione interna tra la presidenza, il governo e gli Stati federali e grazie al supporto della Missione delle Nazioni Unite in Somalia. Alla fine, la politica ha dovuto abdicare dal realizzare la prima elezione a suffragio universale del paese optando per un nuovo processo elettorale indiretto con delegati selezionati dalla politica, dai clan locali e dalla società civile. Gli ostacoli al processo sono stati diversi, dagli attacchi dei qaedisti degli Shabab che hanno preso di mira i delegati e i centri elettorali, alle interferenze della presidenza e dell’agenzia di intelligence della NISA, che ha visto diversi membri eletti in Parlamento tra cui l’ex direttore e consigliere strategico del presidente, Fahad Yasin, fortemente filo turco e filo qatarino.
I principali compiti che aspettano Sheikh Mohamud saranno di completare la costituzione, riguadagnarsi fiducia popolare, preparare elezioni a suffragio universale tra quattro anni, espandere l’autorità del governo, restaurare le buone relazioni tra governo centrale e autorità regionali, ricostruire l’esercito e rimuovere gli Shabab dal paese.
Ovviamente, anche la politica estera ha avuto la sua importanza nel processo elettorale con la Turchia e il Qatar che hanno fatto di tutto per consigliare e supportare il presidente uscente e portarlo alla riconferma. Dall’altra parte, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita hanno sempre supportato i candidati presidenziali dell’opposizione e in particolare proprio Sheikh Mohamud, che sono stati tra i primi paesi a congratularsi con il neo eletto. I primi a congratularsi sono stati Kenya e Gibuti che con Farmaajo si sono spesso trovati in scontro diretto, i più lenti a farlo invece Etiopia e Eritrea che con il presidente uscente avevano costruito una relazione per un nuovo volto del Corno d’Africa. Soprattutto a congratularsi per primo è stato il nuovo ambasciatore americano, Larry André, arrivato alcuni mesi fa a Mogadiscio e già molto attivo.
E gli Usa tornano protagonisti nel paese. Il presidente Joe Biden ha approvato lunedì scorso la richiesta del Pentagono di dispiegare uomini delle forze speciali in Somalia, circa 450, ribaltando la decisione dell’ex presidente Donald Trump, presa nel 2020, di ritirare tutte le 700 truppe di terra stanziate in quel Paese. All’epoca il Pentagono aveva spiegato che le truppe sarebbero state «riposizionate… nei Paesi vicini per consentire operazioni transfrontaliere da parte delle forze americane e dei partner per mantenere la pressione contro le organizzazioni estremiste violente che operano in Somalia», riporta The Week. Da allora, i comandanti americani hanno espresso le loro preoccupazioni, affermando che le missioni di addestramento a breve termine non funzionano più così efficacemente. Il ridispiegamento ha interessato Gibuti e Kenya. Da allora, le truppe statunitensi offrono sessioni di addestramento di 8 settimane, con gli americani che passano circa tre di queste settimane a fare il rischioso viaggio da e per la Somalia.
Hassan Sheikh Mohamud ha ringraziato il Presidente americano Joe Biden in un tweet il 16 maggio, definendo gli Stati Uniti «un partner affidabile nella nostra ricerca di stabilità e nella lotta al terrorismo».
Un’analisi pubblicata a gennaio scorso dall’Africa Center for Strategic Studies di Washington ha rilevato che nel 2021 gli attacchi di Al Shabab sono aumentati del 17% rispetto al 2020 e si prevede che, se l’attuale ondata di violenza continuerà, il numero aumenterà del 71% nel 2022.
A febbraio 2022, infine, il generale Stephen J. Townsend, capo del Comando Africa degli Stati Uniti, ha visitato la Somalia e durante le sue dichiarazioni ha affermato che Al Shabab «rimane la più grande, la più ricca e la più letale struttura affiliata di Al Qaeda, responsabile della morte di migliaia di innocenti, americani compresi. Per fermare gli intenti maligni di Al Shabab è necessaria la leadership dei somali e il continuo sostegno di Gibuti, Kenya, Stati Uniti e altri membri della comunità internazionale».
L’Nsc ritiene che la mossa dell’Amministrazione Biden consente «una lotta più efficace contro Al Shabab».
Eric Molle