Social Media Jihad

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ITALIA – Roma 21/08/2014. Il video dell’uccisione di Foley è solo l’ultimo prodotto della guerra on-line combattuta dagli estremisti islamici attraverso i social media network.

Tutti i gruppi jihadisti hanno utilizzato e utilizzano propri organi di informazione per diffondere messaggi e video, ma piattaforme come Twitter, Facebook o Youtube hanno dato loro un’inedita capacità sia di intimidire i loro avversari che di reclutare nuovi adepti. Con i social media più noti è come scacciare le mosche: i video e gli account vengono chiusi ma ne fioriscono altri uguali rapidamente.
Il video dell’uccisione di James Foley fatta dallo Stato islamico è apparso su YouTube nella notte del 19 agosto.
Pur avendo tutte le caratteristiche di altri video jihadisti, risulta meno “cruento” degli omicidi iracheni di un decennio prima in Iraq o di quello pakistano di Daniel Pearl del 2002. Il video è stato “chiuso” quasi subito da YouTube ma è subito riapparso altrove e una serie di suoi screenshot sono apparsi su Twitter, in uno schema chiaramente non improvvisato. I commenti legati a video e immagini sono volati quasi nell’immediato definendo l’azione una vendetta per gli abusi commessi dai militari statunitensi verso gli iracheni da Abu Ghraib in poi ed incitando alla decapitazione, definita una sorta di “punizione religiosa”. Il fotoreporter Foley aveva coperto la guerra in Libia, prima di andare in Siria, e le sue immagini erano apparse su molti media come la Afp.
Dopo una detenzione lunga i jihadisti lo hanno accusato di essere una spia che doveva morire poiché cittadino Usa non musulmano. Il suo vestito arancione, un richiamo, come abbiamo già scritto e come ampiamente hanno commentato on line, ai prigionieri di Guantanamo Bay, è morto come ritorsione per i bombardamenti sullo Stato Islamico e l suo video ha avuto lo scopo di diffondere la paura e di intimidire chi appoggia le operazioni contro il Califfato Islamico. La viralizzazione del video e delle immagini sono servita a far uscire allo scoperto i simpatizzanti più o meno dichiarati dello Stato Islamico e dei suoi metodi.
Citiamo un paio di commenti pubblicati su diverse testate on line per dare una idea delle reazioni: «L’esecuzione del giornalista americano era una strategia deliberata, mostrare brutalità incute paura nei nemici. Lo scopo è evocare paura, terrore e odio» è un twitter in inglese di un sedicente “estremista”: Abu Bakr al-Janabi (sulla realtà dei nomi ci sarebbe da fare una analisi a parte); «#AmessageToAmerica lo Stato islamico non lascerà vivo nessun non musulmano degli Usa in tutti i paesi arabi a causa degli attacchi aerei di Obama», si legge nell’account KhilafaMedia Twitter.
Negli ultimi anni, Twitter e siti come il forum Ask.fm sono tra le piattaforme principali per i jihadisti che tempo addietro avrebbero evitato una simile esposizione pubblica; altro dato che non deve stupire è la grande padronanza dei social media che supera di gran lunga quella di gruppi precedenti come Al-Qaeda.
Questa nuova forza di penetrazione è in parte una conseguenza della crescita dei social media negli ultimi anni, ma anche del lavoro di giovani reclute, con grad di istruzione elevato, spesso occidentali, che si uniscono a Isis. Si tratta di tecniche e tattiche, low cost rispetto alla costosa parafernalia utilizzata per cancellarle o rintracciarle, illustrate anni fa dal polemologo statunitense John Robb nel suo Brave New World. Per Isis/StatoIslamico, sviluppatosi come la mitica fenice dalle ceneri dell’ex gruppo iracheno affiliato ad Al-Qaeda, i messaggi sui social media sono diventati un modo per dare “forza del progetto” e attrarre reclute, come testimoniano i numerosi vide di nasheed e di canti che inneggiano al jihad, fatti in diverse lingue o con sottotitoli in diverse lingue “occidentali” e “orientali”. Twitter, già prima di Foley, aveva iniziato a sospendere account e estremisti, ma non è ancora chiaro quanto sia efficace questa norma. Resta il fatto che dal pomeriggio del 20 agosto, molti utenti Twitter sospesi sono di nuovo online con nomi diversi.