L’inviato speciale delle Nazioni Unite in Siria, Geir Otto Pedersen, è andato a Damasco per strappare al governo di Assad il benestare sulla formazione del Comitato costituzionale siriano. Pedersen si è impegnato su vari fronti negli ultimi mesi per ottenere l’approvazione più corale possibile al progetto di rinnovamento della carta costituzionale della Siria: dopo un facile incontro a Teheran che gli è valso il primo sì, Pedersen ha visitato Ankara e Mosca. Mentre con la Turchia non si è giunti subito ad un intesa, la Russia ha pienamente appoggiato il progetto ed ha convinto il presidente turco Recep Erdogan ad allinearsi durante l’incontro tripartito di settimana scorsa. A questo punto il nodo sul Comitato è passato dalla dialettica internazionale a quella interna dove si sono manifestati i veri nodi.
L’opposizione siriana vuole una riscrittura completa della carta mentre il governo siriano discuterà solo di eventuali emendamenti alla Costituzione del 2012. Siccome d’altronde Assad non può prescindere dal supporto militare russo nel nord del paese non può nemmeno impuntarsi eccessivamente sulla questione dell’unità territoriale della Siria, tanto cara all’Iran per motivi commerciali, ma che ormai non sta bene quasi a nessuno. Il compromesso con il governo di Damasco è stato discusso da Pedersen con il ministro degli Affari esteri siriano Walid Muallem e nell’incontro si sono smussati i temi spigolosi concedendo un terzo dei delegati all’opposizione (un terzo saranno di Assad ed un terzo indipendenti).
Resterebbe da chiarire ancora la questione di Idlib poiché la Commissione per le negoziazioni di Damasco non vuole far cominciare i lavori del Comitato fino alla presa della città a nord di Hama. In ogni caso nonostante l’annuncio della composizione del comitato, forze siriane e russe hanno continuato nei loro quotidiani bombardamenti in pressione dall’area a sud di Idlib. Sotto la giustificazione di voler combattere HTS, che oggettivamente occupa i villaggi a sud di Idlib, i russi hanno manifestato al Consiglio di sicurezza l’intenzione di voler continuare con un cessate il fuoco selettivo: contro HTS si bombarda cercando di evitare i civili. La cronaca tuttavia ci dice che la popolazione è ben lungi dall’essere risparmiata ed attivisti ed organizzazioni di Idlib stanno protestando per non essere stati inclusi nel Comitato.
Il Comitato dunque probabilmente inizierà i lavori ma russi e siriani continueranno a cercare la vittoria contro HTS ed i ribelli del National Liberation Front – NLF.
Le parole di Erdogan danno ancora più credito a questa versione dei fatti: il presidente turco ha detto chiaramente che la Turchia ora si impegnerà a combattere anch’essa HTS in maniera, così almeno si può supporre, da vedere il bluff di Russia e Siria, che userebbero la lotta ai terroristi come scusa per rimettere le mani sull’importante centro urbano di Idlib. D’altro canto la Turchia si impegna, almeno a parole, a dissociarsi da pericolose vicinanze agli ambienti di HTS; ambienti che hanno, molto probabilmente, visto finanziamenti da Ankara nei mesi scorsi. Per altro, uno dei motivi per cui a fine agosto HTS ha perso così tanto terreno a nord di Hama è da ricercarsi nel mancato appoggio turco in termini di equipaggiamento militare e fondi.
Poiché inoltre il concetto di organizzazione terroristica dipende dal paese che lo usa, per la Turchia se HTS sta iniziando a profilarsi come tale, i curdi del PKK lo sono sempre stati. Erdogan all’inizio della sua visita a New York ha detto chiaramente che l’esercito turco otterrà la vittoria sulle milizie curde nel nord-est siriano. Gli Stati Uniti hanno da tempo tentato di cambiare le carte in tavola nelle aree dell’Amministrazione Autonoma del Nord-Est Siriano – AANES (o Rojava) chiedendo ai curdi di liberarsi del PKK/YPG con il trucco di un cambio di nome. A questo si deve l’avvento delle SDF e dei Consigli militari cittadini (supportati appunto dalle SDF) presenti nelle città della Rojava. In questo modo a loro volta i curdi cercano di smarcarsi dalla definizione di organizzazione terroristica con cui la Turchia conduce la sua opera di politica estera che è ora imperniata sul progetto “Safe Zone”.
A New York, Erdogan presente ai lavori dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è possibile che venga messa in cantiere una discussione a margine con il presidente americano Donald Trump (entrambi hanno parlato il 24 settembre). In questo colloquio ci si aspetta che Trump ed Erdogan discutano del progetto di “demilitarizzazione” di una fascia a sud del confine turco-siriano che i turchi dichiaratamente hanno annunciato di voler usare per ricollocare i 3,6 milioni di rifugiati siriani al momento presenti in Turchia, la “Safe Zone”.
Gli Stati Uniti si stanno muovendo, almeno nelle dichiarazioni, verso la Turchia che, dopo un periodo di gelo nei rapporti con Washington (per il caso S-400 ed espulsione dal progetto F-35), raccoglie commenti positivi sia dal consigliere della Casa Bianca per la Siria, James Franklin Jeffrey, e dal senatore repubblicano della Carolina del Sud, Lindsey Graham.
In particolare Jeffrey riconosce l’apporto che la Turchia ha dato nell’accogliere un numero così elevato di profughi, mentre Graham (attivo un mese e mezzo fa anche in Egitto) plaude all’accordo sulla “Safe Zone” in funzione di repressione al governo di Assad. Le parole di Jeffrey hanno causato qualche malumore fra gli account locali siriani che ravvisano come il consigliere abbia dimenticato il ruolo che la Turchia ha avuto, per procura, nella pulizia etnica nel cantone di Afrin ed a nord di Aleppo. Similmente si esprime il presidente della Commissione di riconciliazione nazionale, Ali Hassan, sostenendo che organizzazioni straniere stiano usando i profughi siriani per scopi politici.
Redazione