OCCUPAZIONE. Il “Millennials Bug”

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Sono appena terminate le celebrazioni del “Labor Day“, in tutto il mondo, giorno nel quale si commemora la conquista dell’orario di lavoro fissato ad 8 ore (dapprima nell’Illinois, nel 1867, e successivamente in Europa, con i primi movimenti a partire dal 1890, e la promulgazione in Italia nel 1923). Dal secolo scorso ad oggi sono state moltissime le variazioni subite dal mondo del lavoro: basti pensare alla crisi del 1929, alla seconda guerra mondiale, ma anche alle rivoluzioni sociali riformiste degli anni 70, che hanno portato – almeno in Europa – ad una stabilizzazione dei diritti sul lavoro per quasi quarant’anni, almeno fino alla crisi iniziata nel 2008, ed in parte ancora in corso.

Sebbene dunque tale celebrazione investa prima di tutto i lavoratori “in forze”, questa assume un significato ancora maggiore per chi il lavoro effettivamente non ce l’ha, e dunque non ha ancora accesso a quel sistema di equità sociale dato dalla possibilità di contribuire attivamente alla vita economica del proprio Paese di riferimento. Si tratta, in buona parte, della generazione definita “dei Millennials”. Tale generazione (definita Y, o “net” generation o ancora MTV gen), relativa alla persone nate fra il 1980 ed il 2000 (e dunque di età attuale nel range fra i 17 ed i 37 anni) è stata proprio quella maggiormente interessata alla recente crisi economica, ma anche quella nei confronti della quale presta maggior attenzione il mondo dei consumi. Recenti studi la definiscono “echo boomers”, visto che riguarda (negli USA, ad esempio) il maggior numero di nascite di sempre, anche maggiore al boom 60-80 (in effetti, si tratta dei figli di tale generazione).

Ma perché è ritenuta così importante?

Alcuni sociologi, in un’ottica assolutamente positivistica, interpretano questo gruppo sociale come caratterizzato da una forte tendenza all’ottimismo per la costruzione di un futuro migliore, basato sulla tolleranza e sul rispetto del pianeta, pur con un imprinting tecnologico particolarmente rilevante. Ed in effetti, il mercato è particolarmente interessato a tali aspetti della generazione Y.

Si tratta di persone “iperconnesse”, che tendono ad un utilizzo sociale anche dei beni di consumo: preferiscono l’uso condiviso di uno strumento/mezzo/bene, e dunque di un servizio ad alto valore aggiunto, piuttosto che all’acquisto di qualcosa che perde valore immediatamente (basti pensare a BlaBlaCar, UBER, Airbnb, Waze, ecc.). Acquistano solo oggetti cool, attraverso i quali sentirsi parte di un gruppo. Dal punto di vista lavorativo, si tratta del popolo delle start-up (a livello mondiale) o delle partite iva nelle professioni non riconosciute da albi, in Italia.

Da un lato, dunque, si tratta di persone che, trovandosi a valle delle grandi rivoluzioni ideologiche dello scorso millennio, e potendo usufruire della comunicazione istantanea, hanno sviluppato una importante rete di relazioni sociali, sulla quale spesso hanno basato il proprio lavoro: è il caso (ad esempio) dei blogger – professione inesistente fino a 10 anni fa – in tutti i settori di appartenenza, alcuni dei quali sono diventati dei veri e propri leader nella comunicazione.

Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. In Europa la disoccupazione giovanile ha toccato livelli molto alti, anche nei Paesi finora considerati immuni da tale problematica (a parte infatti il 40% in Spagna ed il 37% in Italia, che hanno questo problema strutturale, sono da considerare importanti il 35% dei Paesi baltici, il 30% in Gran Bretagna ed oltre il 20% in altre nazioni).

E non si tratta soltanto di impossibilità a trovare il lavoro, ma di persone che hanno smesso in via definitiva di cercare una qualsivoglia occupazione. È questo uno degli aspetti del “Millennials Bug”…

Simon Sinek ha definito gli appartenenti alla generazione Y, nel corso di una TED conference: «difficili da gestire, pensano che gli sia dovuto tutto, narcisisti ed egoisti, dispersivi e pigri», concetto ampiamente ripreso da Michele Serra nel libro Gli Sdraiati.

Ed in effetti, a meno dei giovani leader che hanno fatto delle nuove tecnologie una professione (in numero comunque molto ridotto rispetto all’intera generazione Y) non è detto che essere connesso – “net” – significhi necessariamente essere esperto di information & communication technology. Se si usa il telefono… non è detto che si sappia come sia fatto dentro.

Non è un caso, ad esempio, che i migliori profili di CIO, Chief Information Officer, non appartengano ai Millennials: la generazione delle “app”, non essendo stata “in cantiere” (in un Centro Elaborazione Dati, per l’esattezza), non ha un’idea chiara di cosa significhi un progetto informatico.

È uno quindi il “Millennials Bug“, che mostra le sue sfaccettature nei diversi ambiti di competenze, o di assenza delle stesse: la mancanza di curiosità. Questa si manifesta, da un lato, nell’incapacità di essere empatici (incapacità dovuta ad un eccesso di comunicazione mediata dal computer – CMC – come già delineato dai primi studi sull’alessitimia collettiva, dall’altra nella mancanza di approfondimenti specifici su determinate aree. Basti pensare alle diverse iniziative nate sul Coding, vista l’improvvisazione in tale ambito lavorativo: nell’ingegneria del software non c’è nulla di soft, nel senso che è del tutto paragonabile all’ingegneria civile (senza una buona architettura logica, una base di dati concettualmente valida, ed una infrastruttura di rete in grado di reggere il carico delle transazioni, anche il miglior codice… crolla).

Come rimediare? Non c’è una soluzione facile al “Millennials Bug”. L’unica via è l’istruzione, con le opportune distinzioni. Se infatti la “coda” della net generation può ancora sviluppare una propria identità e cultura all’interno dei contesti istituzionali (quali ad esempio gli Atenei) o nei gruppi sociali di riferimento, se lo vuole, per quanto riguarda gli originari degli anni 80 l’unica via è l’auto apprendimento, ovvero il life long learning. E per l’attuazione di questi ultimi strumenti, bisognerà guardare ancora in Europa.

Vittorio d’Orsi