Mass media per i Mena

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ITALIA – Roma 5/5/13. La giornata mondiale per la libertà di stampa si è svolta il 3 maggio. Il 2013 costituisce un anniversario in più: sono venti anni che si celebra questa giornata in favore della libertà di stampa e di manifestazione del pensiero. Una possibilità non scontata e un diritto da difendere per poter raccontare liberamente e denunciare, se del caso, quelle storie nascoste che spesso costituiscono fonte di imbarazzo per quanti occupano una posizione di potere.

È un’opportunità per i giornalisti in tutto il mondo, intesi nel senso più ampio del termine come coloro che raccontano, di celebrare l’importanza della professione, ma anche l’occasione per denunciare l’erosione che i media subiscono in termini di indipendenza e libertà sia attraverso minacce fisiche che economiche. Se questo fatto è vero nel cosiddetto libero Occidente, lo è ancora di più in teatri più o meno vicini a noi. Vogliamo prenderne in considerazione tre: Egitto, Palestina e Turchia. 

Il 3 maggio appunto, il presidente egiziano Mohamed Morsi ha ufficialmente ritirato tutte cause intentate dalla presidenza contro tutti i mass media, ha riportato l’agenzia di stampa statale Mena.

Morsi infatti ha inviato una lettera al procuratore generale Talaat Ibrahim Abdullah per far decadere tutte le cause intentate dalla presidenza contro sei giornali, i loro direttori responsabili e i loro giornalisti che avevano denunciato comportamenti e atteggiamenti non democratici del regime e del presidente stesso che le aveva ritenute come insulti personali. Morsi ha anche ritirato anche le cause contro due canali televisivi, i loro proprietari e alcuni presentatori. ritirate anche le querele contro un funzionario del sindacato della stampa.

«La decisione è stata presa per rispetto della libertà di espressione», ha detto il portavoce di Morsi, Ehab Fahmi.

Secondo l’Organizzazione egiziana per i diritti umani, si sono registrate oltre 600 denunce contro i giornalisti e professionisti dei media da parte di Mohammed Morsi dalla sua ascesa al potere a fine giugno 2012.

È un dato che la dice lunga sulla ventata di novità del nuovo regime. 

Il caso palestinese è differente. 

Il confine tra media e politica è grigio;  alcuni attivisti politici sostengono che i media sono uno strumento per il nazionalismo palestinese e per la lotta e quindi non può essere obbligati ad applicare le regole di obiettività, equilibrio tipiche della professione. 

Questa visione va contro anche quello che vogliono i fruitori ultimi dei media: il pubblico. I consumatori, anche in Palestina, vorrebbero mass media onesti e professionali. Un caso, discutibile quanto si vuole, ma che rientra nelle regole generali dell’informazione è quello di Al Jazeera in Palestina. Andando poi a toccare l’universo dei new media, tocchiamo cifre significative di scamio di notizie e informazioni: gli utenti palestinesi a Gaza e in Cisgiordania (senza Gerusalemme est) hanno superato quota 1 milione di abbonati su Facebook. Questo social media è stato utilizzato, di fatto, per l’alfabetizzazione mediatica, la diffusione di articoli multimediali, portando il mondo in casa dei giovani palestinesi, cosa che i media tradizionali non hanno fatto.

Restando nell’arena mediterranea andiamo in un Paese cerniera come la Turchia. 

Ogni qual volta si parla di libertà di stampa in un contesto ampio, come avviene ogni 3 maggio da venti anni a questa parte, la Turchia mostra le sue debolezze. 

La società turca ha subito una notevole trasformazione da oltre un decennio. Vari segmenti della sua società pluralistica spingono verso una transizione democratica, come dmostra la richiesta di una soluzione democratica per la questione curda.

Allo stesso tempo, la Turchia sta negoziando la sua piena adesione all’Unione europea, è un membro della Nato e di più di 30 istituzioni occidentali. Gran parte della sua élite economica e intellettuale si sforza di creare una società aperta, civile.

L'”esperimento turco” verso una “normalizzazione”, di fatto, sta ispirando quanto sta avvenendo in Medio Oriente e in Nord Africa.

Sulla scena turca sono presenti mass media in maniera ampia e apparentemente pluralista, con un’espansione del settore digitale. I ricavi pubblicitari totali annui oscillano tra i 4 miliardi e i 4,5 miliardi di dollari, con il settore tradizionale della stampa perdente sull’online.

Non ci sono apparentemente censure alla sua azione 

Eppure, la Turchia è stata ultimamente definita come il paese che incarcera più giornalisti al mondo.

Se gli incarcerati sono giornalisti curdi, attivisti politici,  comunque, la maggior parte dei giornalisti turchi soffre profondamente dall’erosione dell’indipendenza editoriale.

In altre parole, esiste una prigione vera per il giornalista curdo e dissidente, spesso parte dell’editoria minore, mentre c’è un grande prigione a cielo aperto per migliaia di editori, editorialisti e giornalisti turchi dei grandi media, più dell’80 % del settore.

Dalla televisione pubblica alla più grande agenzia di stampa si trova lo zampino dello Stato turco.  Anzi queste sono di fatto subordinate allo Stato. I tesserini vengono ancora emessi dietro parere governativo.

I diritti di contrattazione collettiva sono quasi del tutto scomparsi, i proprietari dei media hanno bloccato tutta l’attività sindacale, divenendo una sorta di padroni delle ferriere ottocenteschi.

La concentrazione delle proprietà dei media, così come quella di grandi attività commerciali esse stesse proprietarie di mezzi di comunicazione, rendono il settore vulnerabili ad alleanze con le élite politiche,bloccando la funzione di cane da guardia svolta da un giornalismo libero. 

 Coprire notizie su casi di corruzione, o di abuso di potere, è quasi impossibile di fatto. 

I giornalisti curdi in carcere sono solo la punta di un iceberg: la libertà dei media, nella Turchia del 2013, è strettamente intrecciata alle questioni di indipendenza editoriale.