Iraqi fog of war

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REGNO UNITO – Londra 19/06/2014. Lunedi scorso di ritorno dal Festival sull’Isola di Wight mi è capitato di leggere sul NYT Int. la lettera attribuita all’ex analista militare americano Bradley Edward “Chelsea” Manning.

Ho pensato subito che valesse la pena tradurla, così in automatico ho tirato fuori il taccuino dallo zaino e al posto di godermi le lussureggianti praterie dal finestrone del treno, magari scambiando qualche battuta di tanto in tanto con la mia compagna di viaggio, mi sono messo a scrivere, e mentre scrivevo pensavo che quel racconto meritava di essere condiviso.

Bradley Manning, o Chelsea, fate voi, ormai non ha piu’ bisogno di presentazioni. Basta dire che è l’uomo che ha fornito a Wikileaks il contributo più significativo in termini di documenti, e parliamo di oltre 600.000 file, molti dei quali non ancora pubblicati dalla rete del recluso Assange e dai suoi wisthleblowers in giro per il mondo.
Questo ragazzo di soli 27 anni nel 2010 era già in Iraq a gestire flussi informativi militari, oggi sta scontando una pena di 35 anni nel carcere di Fort Leavenworth, Kansas, per aver divulgato informazioni riservate. Oggi ci offre l’opportunità di approfondire alcune questioni riguardanti i meccanismi di gestione e diffusione delle informazioni provenienti dai teatri di guerra più recenti, quelli in cui l’esercito americano porta avanti le sue interminabili e controverse missioni di pace.

«Oggi l’ Iraq e’ sull’orlo di una guerra civile, e gli Stati Uniti si apprestano a intervenire di nuovo. Fonti AP tastano il terreno riferendo di un piano iniziale affidato ad un centinaio di uomini dei reparti speciali per «contenere la dilagante insurrezione sunnita, mentre dal governo iracheno partono accuse «indirizzate al Qatar e Arabia Saudita sul sostegno finanziario e morale offerto ai terroristi attivi in Siria e Iraq, apparentemente riuniti sotto la sigla dell’ Islamic State in Iraq and Levant».

Proprio partendo dal periodo vissuto in Iraq tra il 2009 e il 2010 , Bradley Manning introduce la questione dirimente della copertura mediatica in teatro di guerra affrontando in successione i temi della libertà di stampa tra i giornalisti embedded, la segretezza dei dati classificati anche quando si tratta di contare i morti caduti in un imboscata, o la competizione infruttuosa tra giornalisti scelti in base al grado di affidabilità dimostrata negli anni nei confronti dell’ esercito, attività che di fatto da vita a racconti indottrinati, spesso di copertura, fino alle distorsioni evidenti e disastrose dell’ opinione pubblica americana. In chiusura si soffermerà su alcuni accorgimenti che a suo avviso potrebbero rivoluzionare la gestione delle informazioni rendendo l’ operato dei soldati e funzionari alla portata di tutti senza mettere a repentaglio la sicurezza delle missioni. Proprio a questo scopo Manning suggerisce l’istituzione di una commissione indipendente composta da veterani, militari, civili del Pentagono e giornalisti per favorire una gestione trasparente dei fatti e favorirne la divulgazione.

Nonostante le cronache spot dei giornalisti di servizio, in riferimento ai servizi per immagini in cui si cerca di veicolare il messaggio degli Stati Uniti come esportatori di democrazia, e qui ci ricorda le espressioni fiere delle donne irachene che al seggio mostravano alle telecamere le dita imbrattate di inchiostro, Manning accusa i militari statunitensi di complicità con un sistema corrotto che manipola i risultati delle elezioni. Più avanti riporta una denuncia pesantissima, proprio quando racconta in maniera dettagliata il silenzio complice delle autorità presenti nel paese sui crimini subiti da attivisti e scrittori eruditi, imprigionati, torturati e spesso uccisi, bollati quasi sempre come terroristi. Crimini perpetrati dagli uomini al servizio del primo ministro al-Maliki. Di fronte alle sue segnalazioni presso ufficiali locali, l’analista americano viene invitato ad occuparsi della localizzazione di ambienti adibiti a produzione di stampa definita “anti-irachena”.

Alcune domande che Manning rivolge a se stesso si rivelano utili in fase di approfondimento. Come è possibile in effetti che in un territorio composto da 31 milioni di persone, occupato da 117.000 militari, vi siano al massimo 12 giornalisti americani scelti con modalità che poco o nulla hanno a che fare col mestiere di riportare i fatti in maniera libera e incondizionata? Come lavora un reporter di guerra costretto a firmare un protocollo di “regole mediatiche” che se non viene rispettato alla lettera comporta non solo l’ espulsione, ma addirittura l’ iscrizione sul libro nero dei giornalisti indesiderati, una macchia indelebile che li escluderà dalle future missioni. La risposta che ci fornisce parte dal Vietnam e ci ricorda che quando l’ opinione pubblica diventa consapevole dei fatti allora questo costituisce un pericolo per gli interessi militari, di conseguenza meglio nascondere o peggio costruire realtà facilmente digeribili. D’ altronde la costituzione americana non prevede protezioni particolari per i reporter di guerra con l’elmetto, del resto, come faceva notare qualcuno dal Pentagono: «Essere embedded è un privilegio, non un diritto».

*etn- cafe route, una volta chiuso, quando si sente solo il rumore dei frigoriferi.