LIBRI. Per comprendere l’Hikikomori che può esserci accanto

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Cominciamo con una domanda diretta: chi è Marco Termenana? È uno pseudonimo; è il nome usato dall’autore per tutelare la privacy della sua famiglia.

Nei suoi romanzi descrive il male di vivere dei giovani adolescenti, partendo dalla sua tragica esperienza familiare. I suoi romanzi sono ispirati al suicidio di Giuseppe, il figlio ventunenne, il più grande di tre, quando in una notte di marzo 2014 apre la finestra della sua camera, all’ottavo piano di un palazzo a Milano, e si lancia nel vuoto.

In precedenza con lo pseudonimo di El Grinta ha pubblicato Giuseppe. Senza mai cadere nella retorica, la storia racconta il male di vivere di chi si è sentito sin dall’adolescenza intrappolato nel proprio corpo: la storia di Giuseppe è infatti anche la storia di Noemi, alter ego femminile, che assume contorni definiti nella vita dei genitori solo nel momento in cui si toglie la vita.

Si tratta di tragedie di mortale isolamento, definibili benissimo con un termine giapponese: hikikomori. Il termine hikikomori si riferisce sia al fenomeno sociale in generale, sia a coloro che appartengono a questo gruppo sociale; è una malattia consistente nella scelta di rifuggire totalmente dalla vita sociale e familiare.

L’ultima fatica di Termenana, Mio figlio (Csa Edizioni), ha riscosso numerosi riconoscimenti nei Concorsi letterari di tutta Italia: l’ultimo per data, il diciassettesimo, a Palermo, con “Città di Cefalù”.

Sulle motivazioni della sua opera, ha dichiarato: «Ho scritto solo per commemorare Giuseppe ma se il messaggio arriva nelle scuole sono contento. Credo che bisogni iniziare dalle scuole medie. Non è mai il momento sbagliato per parlare di certi argomenti ai nostri figli, ma ho verificato che quella è l’età migliore. Mi è stato chiesto se penso che ragazzi così giovani leggano un libro come il mio di 386 pagine. A parte il fatto che penso di sì, è irrilevante, perché anche se leggono solo la lettera che ha lasciato Giuseppe riportata nel testo, o il libro gira tra i banchi con la guida dei docenti, l’obiettivo di responsabilizzazione è raggiunto (…) Non ho la pretesa di insegnare niente a nessuno e reco solo una testimonianza che auguro a tutti di non replicare mai, tra l’altro venuta fuori per caso perché io volevo solo commemorare Giuseppe. Sapete però cos’è quello che mi ha fatto più piacere quando ho saputo del risultato? Non i quattrocento euro del premio (anche), non che sia il vincitore assoluto della sezione (non c’è podio), ma che siano stati soprattutto i giovani della commissione ad assegnare a Mio figlio il massimo del punteggio disponibile! (…) Penso sempre che Giuseppe, in spirito, sia ben accetto e quindi a suo agio, in mezzo ai ragazzi che conoscono la sua storia e questo, anche se non ho mai capito perché, mi fa stare bene…».

Maddalena Ingrao