KASHMIR. Jihad come strumento di guerra asimmetrica

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Di fronte a una nuova escalation tra India e Pakistan, i riflettori tornano su Lashkar-e-Taiba, Jaish-e-Mohammed e altri gruppi jihadisti attivi nella regione contesa del Kashmir.

Il recente attacco terroristico a Pahalgam, costato la vita a 26 civili indiani, ha riacceso le tensioni tra India e Pakistan e ha portato New Delhi a lanciare l’operazione militare “Sindoor”. Dietro l’attentato e l’instabilità crescente si muovono attori noti: gruppi jihadisti da anni operanti nella regione del Kashmir, sostenuti in passato, secondo diverse fonti internazionali, da settori dell’apparato statale pakistano.

Tra i principali indiziati c’è Jaish-e-Mohammed (JeM), gruppo salafita fondato nel 2000 da Masood Azhar. JeM è noto per il suo coinvolgimento in numerosi attacchi contro obiettivi indiani, tra cui l’attentato di Pulwama del 2019. Il suo quartier generale si trova a Bahawalpur, in Pakistan, ed è stato uno dei principali bersagli di “Operation Sindoor”. L’operazione militare ha difatti causato l’uccisione di Masood Azhar, dieci dei suoi familiari e quattro leader jihadisti a lui affiliati.

Accanto a JeM si muove Lashkar-e-Taiba (LeT), organizzazione militante sunnita fondata nel 1990, responsabile, tra gli altri, dell’attacco di Mumbai del 2008. Sebbene formalmente vietata in Pakistan, LeT continua ad operare mantenendo capacità logistiche e operative, come dimostrato dalla presenza attiva a Muridke, colpita anch’essa durante l’operazione indiana.

Un altro attore rilevante, soprattutto all’interno del Kashmir indiano, è Hizbul Mujahideen, considerato il principale gruppo jihadista autoctono. Nato nel 1989 con l’obiettivo di unificare il Kashmir al Pakistan, il gruppo ha perso rilevanza negli ultimi anni a causa della repressione indiana e della concorrenza di formazioni più radicali e soprattutto meglio finanziate.

Anche sigle transnazionali come Al-Qaeda nel Subcontinente Indiano (AQIS) e una piccola presenza dello Stato Islamico – Provincia del Khorasan (ISKP) cercano di guadagnare terreno nella regione, ma il loro impatto operativo resta secondario rispetto ai gruppi storicamente radicati sul territorio.

Il coinvolgimento di questi gruppi ha riacceso le accuse dell’India verso Islamabad, accusata da anni di tollerare o addirittura sostenere questi attori come strumenti di guerra asimmetrica. Il Pakistan, da parte sua, nega ogni coinvolgimento diretto.

“Operation Sindoor” con i suoi attacchi mirati a infrastrutture terroristiche, rappresenta una nuova fase della strategia indiana: colpire alla fonte le reti jihadiste ritenute responsabili di destabilizzare il Kashmir. Ma finché la questione politica della regione resterà irrisolta, il terreno fertile per la radicalizzazione non scomparirà.

Il Kashmir dunque continua a essere non solo una terra contesa tra due potenze nucleari, ma anche un campo di battaglia per ideologie estremiste che sfruttano il conflitto per alimentare il jihad.

Beatrice Domenica Penali

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