ITALIA. La condotta diffamatoria sul web

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di Vittorio D’Orsi ITALIA – Roma, 19/01/2017. La sentenza Num. 54946 Anno 2016 della Suprema Corte di Cassazione apre nuovi e inaspettati scenari in merito ai profili di responsabilità legati al possesso di un sito internet o di un blog.
Mentre l’orientamento giurisprudenziale della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si era espresso in direzione opposta, già a febbraio 2016, in Italia invece si attribuisce una responsabilità specifica al gestore di uno spazio internet, nel senso che chi detiene un’area pubblica della rete, ha il dovere di controllarne i contenuti, onde evitare espressioni che possano potenzialmente diffamare o ledere qualcuno, anche nel caso in cui quanto espresso sia lasciato con un messaggio anonimo.
La materia è certamente complessa, e non è possibile esaurire l’argomento con poche righe, visto che peraltro due diversi ambiti (europeo e nazionale) si sono espressi in maniera diversa.
Pur tuttavia, si possono ricercare dei “paralleli” dal virtuale a reale, in modo tale da indurre una riflessione.
L’espressione giurisprudenziale italiana, infatti, ha senso se paragoniamo il contenuto di un sito con la carta stampata, come se appunto un blog fosse gestito al pari di una testata giornalistica. Questo comporterebbe dunque un team di redattori, un processo chiaro di revisione e controllo delle fonti, prima della pubblicazione di una notizia, o comunque di un qualsivoglia parere. È un iter assolutamente in linea con il concetto di giornalismo e con il Codice Deontologico dell’Ordine. Inoltre, senza ombra di dubbio, si eviterebbero le false notizie (le cosiddette “bufale”) che sovente polarizzano l’attenzione dei lettori – almeno fino alle smentite dalle fonti ufficiali – ma anche gli atti di cyberbullismo, perché se effettivamente il gestore è responsabile dei contenuti, allora non potranno più essere pubblicati da nessuno, nemmeno dai ragazzi adolescenti, commenti che ledano l’immagine di altri ragazzi.
Tutto giusto, ma internet è questo?
Partiamo dal fatto che Internet… non esiste, ovvero non esiste come unica rete fisica in quanto tale, ma come interconnessione di reti (spesso dedicate inizialmente ad altre funzioni), alle quali viene fatto utilizzare un protocollo di comunicazione comune (il TCP/IP), per poter fruire di servizi standardizzati. Dunque le risorse, e le informazioni, che sono disponibili “in rete”, non sempre sono riconducibili ad una proprietà specifica. E quindi: se il sito/blog è in Italia, ed il proprietario è noto, è possibile condannarlo per commenti lasciati sul suo spazio internet, ma se la proprietà non è nota, e l’autore è anonimo, allora non è possibile esprimere nessuna condanna. È, per semplificare e comprendere, esattamente quello che avviene con le targhe automobilistiche. Se un’auto italiana supera i 130 km orari in autostrada, allora scatta la multa ed il ritiro della patente, ma se si tratta della targa di un paese straniero, ad esempio nell’est, allora è inutile fare la ricerca perché questa sarebbe ben più onerosa della multa stessa, con una lesione generale del concetto di giustizia (che per alcuni è “più uguale” che per altri).
Come verranno applicati quindi i principi derivanti dalla sentenza della Corte? I gestori di Facebook, Linkedin, Twitter, ecc… dovranno controllare pedissequamente tutti i contenuti inseriti dai propri utenti? Anche quelli potenzialmente lesivi? Anche se queste aziende non sono in Italia? Hanno il diritto di bloccare un profilo e renderlo, almeno temporaneamente, inutilizzabile? È un po’ come dire che le aziende di trasporto debbano rispondere delle immagini “taggate” dai writers sulle carrozze del metrò: «Oggi niente mezzi sotterranei, la metropolitana è ferma, i contenuti dei murales sono offensivi per il pubblico».
L’effetto finale potrebbe essere che, in ultimo, i diversi gestori spostino i loro servizi direttamente all’estero.
La materia è certamente controversa e, bisognerà fare attenzione agli sviluppi successivi.