
«Morte a Khamenei» «Lasciate stare la Siria, pensate invece a noi» «Morte al dittatore, morte al dittatore» «Non vogliamo combattere, ma se lo farete, siamo pronti anche noi a combattere».
Sono questi gli slogan che raccontano la rivolta iraniana narrata dagli account telegram, altro che rivoltare il carovita, come riportano i media occidentali, pochi, o per il prezzo delle uova, come riporta l’iraniana Tasnim.
Il regime degli ayatollah è assediato dall’interno da una grande rivolta politica, prima, e sociale, poi, tesa a ribaltare l’attuale regime nato dalla rivolta anti Phalevi del 1979. «Indipendentemente da come #IranProtest sviluppa, il messaggio è chiaro: “Gli iraniani vogliono fermare l’abuso del loro paese come veicolo per l’ideologia #Khomeinist”»; questo post è chiaro nella sua essenzialità: lo status quo che vige a Teheran da oltre 35 anni non è più tollerato. Nelle proteste sono unite tutte le minoranze etniche presenti nel paese accanto ai “persiani etnici”, per intenderci, contro il regime: «Unità tra arabi, monaci, curdi, balochi, farsi, turchi, in tutto l’Iran. Tutti sono uniti contro il regime #Shia di #Iran e si difendono a vicenda».
Teheran sta reagendo nel maniera più tradizionale: «#Breaking: i manifestanti #Paceful sono stati brutalmente soppressi da #Basij milizia & polizia in North #Karegar strada # di Teheran». Il numero dei morti nella sola Teheran è stato elevato: i Basiji hanno ucciso, e le foto via social vengono pubblicate dagli stessi manifestanti. Lo hanno fatto con armi da fuoco e da taglio: 6 morti a Tuyserkan; 3 a ShahinShahr; 4 a Dorud; 2 a Izeh/Iseh. Ma si tratta di un bilancio provvisorio: «Altre vittime sono segnalate, ma non possono essere confermate adesso», recita un post che narra gli avvenimenti drammatici di queste ore; gas lacrimogeni e cariche di polizia non riescono a contenere la rabbia della popolazione, stanca anche di vedere morire da anni le proprie generazioni in Siria. L’epoca delle “chiavi del paradiso”, in plastica, sembra definitivamente tramontata.
Ad Abadan, nella provincia del Khuzestan, la protesta è mossa al grido di: «Morte al dittatore, morte al dittatore». La violenza l’ha fatta da padrona: molte città, piccole e medie del paese, sono state prese di mira e incendiate, come anche basi e caserme dei pasdaran; agenti della sicurezza si sono rifiutati di andare contro la popolazione e hanno “disertato” unendosi ai manifestanti. Non si tratta più solo di manifestazioni di protesta spontanea, ma di una rivolta organizzata che, come risulta da un post, ha un suo centro “politico” a Parigi; un iter che sembra ricalcare quanto accaduto in Siria nelle fasi iniziali della guerra civile.
Antonio Albanese e Graziella Giangiulio