INDO PACIFICO. Ambiguità strategica cinese e diplomazia del guerriero lupo

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Sul “ricongiungimento” di Taiwan alla Cina continentale, Pechino ha adottato una logica politica improntata all’ambiguità strategica. Le quattro linee rosse della politica estera cinese sono chiare: Taiwan, democrazia e diritti umani; il suo sistema politico e il diritto allo sviluppo.

Raramente però su tratta di linee ben marcate, si tratta di una strategia che richiede maggiore attenzione nell’Indo-Pacifico, riporta AT. L’ambiguità si manifesta in soglie vaghe, un linguaggio flessibile e reazioni imprevedibili; permette alla Cina di adattare la propria posizione senza apparire incoerente; scoraggia gli altri attori stranieri che devono valutare il rischio di oltrepassare un limite che non riescono a vedere.

Pechino applica questa tattica in modo più ampio rispetto agli Usa, ad esempio. Per Pechino, l’ambiguità offre vantaggi sia offensivi che difensivi. Permette alla Cina di ricalibrare la propria posizione in tempo reale, esercitando pressione dove necessario e facendo marcia indietro senza perdere la faccia. Contribuisce inoltre a mantenere la coesione interna, mostrando forza al pubblico interno senza impegnarsi in azioni rischiose.

Ciò che rende efficace l’ambiguità cinese è l’applicazione: utilizza strumenti legali, economici, militari e diplomatici in modo selettivo e potente.

Dal punto di vista legale, si basa su leggi vaghe come la legge anti-secessione e la legge anti-sanzioni straniere. Termini come “atti di secessione” o “interferenza” possono essere adattati a molti casi. Inoltre, leggi più recenti, come la legge sulle relazioni estere, ampliano la gamma di strumenti, mancando di definizioni precise, concedono a Pechino il massimo spazio interpretativo per agire quando vuole e astenersi quando non lo vuole.

Economicamente, la Cina ricorre a divieti commerciali, ritardi doganali e boicottaggi non ufficiali. Quando la Corea del Sud ha ospitato un sistema di difesa missilistica statunitense, i turisti cinesi sono scomparsi e le aziende coreane sono state colpite. L’Australia ha dovuto affrontare sanzioni per orzo e vino per aver chiesto un’inchiesta sul Covid. La Cina raramente annuncia queste mosse.

Le azioni militari seguono lo stesso schema. L’Esercito Popolare di Liberazione conduce esercitazioni vicino a Taiwan, entra in acque contese e sorvola lo spazio aereo conteso. A volte intensifica la sua azione. Altre volte si ritira. La coreografia è pensata per tenere gli avversari col fiato sospeso. Un pattugliamento navale congiunto vicino al Giappone potrebbe essere abbinato a visite diplomatiche conciliatorie altrove. L’ambiguità consente a Pechino di usare più toni contemporaneamente.

Diplomaticamente, Pechino convoca ambasciatori, spara una retorica tagliente e scatena i media statali. La diplomazia del “guerriero lupo” aumenta la tensione senza tracciare linee nette. L’ambiguità mette alla prova la determinazione e misura le reazioni. Questo sistema crea un’apparenza di controllo senza impegnarsi in risultati fissi. È progettato per plasmare il comportamento degli altri stati aumentando l’incertezza.

L’ambiguità poi non è un metodo di controllo per limitare le scelte strategiche altrui. Reagendo selettivamente, mantiene la possibilità di negazione. Non è casuale: è un’arte di governare integrata. E Wang Yi ne è maestro, fondendo politica, economia e sicurezza in un unico sistema strategico.

Il risultato è un sofisticato ecosistema di influenza. Uno che punisce selettivamente, perdona tatticamente e mantiene sempre il sopravvento non rivelando mai le regole. Nell’Indo-Pacifico, l’ambiguità può anche portare alla frammentazione delle alleanze, idebolendo le risposte collettive e incoraggiando ulteriori test da parte di Pechino.

Per Pechino, l’abuso dell’ambiguità può creare un divario di credibilità. La costante calibrazione può apparire come indecisione, fattore che Pechino vuole evitare nella sua corsa divenire attore geopolitiche universale. 

Tommaso Dal Passo

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