Proprio quando gli Usa e i loro alleati si preparano ad uscire dall’Afghanistan nel 2014, si apre il dibattito sull’efficacia dell’azione alleata in teatro, sul come e sul quanto si sarebbe potuto fare in oltre dieci anni di presenza in area. Il dibattito riguarda l’intero AfPak, ossia Afghanistan e Pakistan, l’insieme oramai inscindibile formato dai due Paesi, nel quale, stante la capacità nucleare e l’incapacità governativa manifesta, il Pakistan, proprio come Ahmed Rashid titola il suo ultimo libro, è sull’orlo del baratro (Pakistan on the brink) . Un baratro la cui profondità si inizia a perecepire solamente ora, proprio quando si è deciso di allontanarsi dallo scacchiere centroasiatico, rischiando di ripetere l’epoca successiva alla fine della guerra afgana dell’Urss, naturalmente ocn minore,anzi quasi nessuna, euforia post vittoria.
L’assenza dello Stato, come lo si può intendere in Occidente, in molte regioni del Pakistan non deve stupire più di tanto: al di là della fin troppo facile etichetta dell’endemicità di talune caratteristiche di una regione va analizzato a fondo il percorso di un Stato che ha ricevuto milioni di dollari in “aiuti internazionali” che non sono minimamente stati utilizzati per rinforzare la fragilità congenita dello Stato pachistano, ma che al contrario hanno alimentato altri circuiti militari e non, imbevuti di estremismo politico-religioso, miopi di fronte alle dinamiche contemporanee economico politiche che li ha resi elementi pericolosi per tutta l’area. Col risultato che chiunque voglia avventurarsi anche solo nella semplice lettura di testi sull’area si trova a dover consaiderare u n solo grand eunico problema inPakistan: le strtture di governasnce dello Stato a mala pena funzionano o sono presenti, costringendo chi vive in quelle zone ad “arrangiarsi” a rivolgersi a strutture non statali per avere giustizia ad esempio. Non è particolarmente difficile da comprendere per noi italiani, ad esempio.
Senza andare troppo lontano con i paragoni e le similitudini, basta scendere, mutatis mutsandis, nello stivale nostrano ed immaginare che il sistema giustizia non funzioni, non garantisca e non ascolti le giuste richieste di diritto dei cittadini, che sono giocoforza costretti a rivolgersi a strutture parallele antistatali ritenute capaci, però, di poter fare e dare giustizia e tranquillità.
È quello che di fatto accade in Pakistan nelle Fata, nelle Swat, con i movimenti che semplicisticamente vengono definiti jihadisti o neo talebani, come Lashkar-e-Islam o Tehrik-e-Nifaz-e-Shariat-e-Mohammadi ad esempio, che si vanno ad inserire in un ambiente nel quale si sovrappongono regole antichissime e relazioni tribali vincolanti. L’azione “politico-giudiziaria” scardinante di questi gruppi, ritenuti capaci di risolvere questioni che si portano solitamente davanit ai tribunali, ha poi creato “abusi di potere” ossia ha finito coll’imporre una interpretazione della legge coranica in cui barbe lunghe e velo femminile sono solo gli esempi esteriori e più facili da cogliere per un “lettore o viaggiatore” occidentale poco avvezzo e facilmente “impressionabile” da certe immagini.
La governance pachistana è notoriamente corrotta e debole ma mentre la frustrazione dei cittadini coi loro leader politici da sì spazio a gruppi estremi che fanno esplodere il malessere, la gran parte di questi gruppi non si avvantaggia dall’apertura che possa venir fatta loro dalla società civile e dal sistema politico, tenta il tutto per tutto e fallisce inevitabilmente. A tal riguardo interessanti sono le analisi fatte da Robert D. Lamb e Sadika Hameed, ricercatori del Center for Strategic & International Studies, nel loro Subnational governance, service delivery and militancy in Pakistan.
Lamb e Hameed, giustamente, affermano che: «”I militanti pachistani non sono ottimi governanti, fornitori di servizi e amministratori» Piuttosto che mettere in piedi strutture alternative per rimpiazzare le funzioni dello Stato [e ottenere consenso politico, nda], i militanti generalmente finiscono per usare metodi coercitivi ancora più delle istituzioni legittime nel controllo del territorio e nella gestione e ricerca del consenso. Il successo (…) di gruppi estremisti ha creato sconcerto tra i politici occidentali che credono che una governance povera o scarsamente presente in alcune zone del Pakistan dia spazio a quei gruppi che pensano solo a far esplodere il malessere contro il governo». La questione è più complicata, ci dicono i due autori. «Seppur non presenti le istituzioni governative, le aree non sono prive di governo. Esiste un complesso sistema di regole di fatto che implementa la struttura dello Stato. Non è solo l’insoddisfazione verso il governo a fare spazio agli estremisti. Il fatto è uno solo: anche le regole tradizionali non soddisfano, e gli unici presenti sul territorio sono i militanti islamici, non è la loro ideologia o i loro metodi, è la loro presenza fisica nel territorio visibilissima perché non c’è effettivamente nessun altra istituzione né tradizionale né governativa». A testimonianza di questo dato di fatto stanno i continui scontri e le epurazioni dei malik (letteralmente anzianio. Si tratta dei referenti giuridico-politici della tradizione) fatte dai gruppi islamici emergenti che ciclicamente Non si tratta di un gioco a somma zero senza variabili: il governo deve affrontare contemporaneamente diverse crisi a differenti livelli e l’esercito non è adeguato a fornire governance se il pugno di ferro è l’unico strumento conosciuto. L’aiuto mancato statunitense e alleato, e lo stesso Rashid che ce lo ricorda, è proprio questo: l’aiuto politico nella formazione di dirigenti che potessero fornire un cambiamento vero non c’è stato. Alla vigilia del rientro delle truppe occidentali, il Pakistan, potenza nucleare regionale, è veramente sull’orlo del baratro.