ICTUS. Più prevenzione e ricerca per ridurne l’impatto

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I temi della riabilitazione, prevenzione e ricerca continuano a rappresentare il vero snodo nel trattamento di molte malattie gravi. Stessa musica nel caso dell’ictus: patologia al centro del recente congresso nazionale dell’ISA-All svoltosi a Verona.

Mauro Silvestrini, Presidente dell’Associazione Italiana Ictus lancia l’allarme circa il percorso riabilitativo post-ricovero per i pazienti colpiti da “stroke”.

«Un terzo di essi avrebbe necessità di ricevere terapie riabilitative subito dopo il ricovero ospedaliero. Tuttavia solo il 18% dei malati riesce a usufruire di questi servizi, mentre oltre il 53% torna a casa a seguito delle dimissioni».

La necessità di potenziare la fase di riabilitazione ai fini del miglioramento dell’assistenza ai malati e al contempo della riduzione dell’impatto socio-sanitario per una patologia in forte crescita, diventa l’urgenza a cui mettere mano il prima possibile.

La pandemia da Covid-19 nel 2020 non ha certo aiutato. In molti casi, le persone colpite dalle forme meno importanti non raggiungevano i reparti specialistici subendo le severe conseguenze di un ictus non trattato a dovere.

«Fortunatamente – dice ancora Silvestrini – grazie anche al coinvolgimento del 118, alla migliore organizzazione e diminuzione dei casi da Coronavirus, adesso la situazione è cambiata. I dati di quest’anno confermano che i malati hanno ricominciato a ricevere con regolarità diagnosi e cure».

Rimane però in piedi la questione degli accessi ai percorsi riabilitativi: quesito che affonda le sue radici in epoca antecedente la pandemia.

Trattamenti tradizionali, quali la fisioterapia, associati a nuove tecniche, costituiscono le risorse a cui poter attingere. Allo scopo d’assicurare ai pazienti un ritorno alla vita di tutti i giorni a conclusione della fase acuta.

È bene rammentare come nel nostro Paese ogni anno siano 45mila le persone che riescono a superare l’ictus, seppur con esiti pesanti e parecchio invalidanti. Disabilità spesso persistente a lungo – se non addirittura per l’intera esistenza – e dai costi sociali, economici, sanitari altrettanto onerosi; sia per il singolo sia per le famiglie e la comunità.

L’Italia possiede centri per il trattamento dell’ictus di grande rilevanza ed eccellenza. Molto resta da fare, invece, a livello di prevenzione primaria e sensibilizzazione sui fattori di rischio affrontabili e modificabili.

Occorre smettere di fumare, porre un freno efficace al consumo di alcol, dire no all’alimentazione disordinata e favorire l’attività fisica. D’altro canto va altresì sottolineato il peso delle malattie cardiache, del diabete, dell’obesità nell’insorgenza dell’ictus (stesso discorso sull’ipertensione arteriosa: sempre da monitorare).

Il congresso di Verona ha poi offerto l’occasione per rilanciare e discutere il SAP-E: Stroke Action Plan for Europe. Piano elaborato da 70 medici e promosso dall’European Stroke Organization (ESO) e dalla Stroke Alliance for Europe, il cui obiettivo dichiarato è limitare, entro il 2030, l’impatto della malattia attraverso sette macro-aree d’intervento: prevenzione primaria, organizzazione della cura, cura dell’ictus acuto, prevenzione secondaria, riabilitazione, valutazione dei risultato e vita post-ictus.

«Possiamo ridurre del 10% i nuovi casi su base annua», commenta Francesca Romana Pezzella dell’UOSD Stroke Unit Ospedale San Camillo-Forlanini di Roma. «Sarebbero 15mila pazienti in meno a necessitare di cure e assistenze specifiche. C’è bisogno allora in Italia di un Piano Nazionale per l’Ictus che comprenda a 360 gradi la gestione della patologia cardio-cerebro-vascolare: dalla prevenzione primaria alla riabilitazione. Necessario pure l’impegno della UE e delle singole nazioni in fatto d’investimenti nella ricerca in maniera correlata all’entità e alla prevalenza del problema sanitario».

Marco Valeriani