Euforia addio!

72

MEDIO ORIENTE. La primavera araba, che ha infiammato il mondo arabo due anni or sono, diffondendosi dalla “tranquilla” Tunisia poi in Egitto, Libia, Golfo Persico fino in Siria, ha esaurito la sua fase euforica e rivoluzionaria per essere messa ora alla prova dalle difficoltà del contemporaneo universo economico interconnesso  per definizione.  Se le transizioni politiche sono ancora in corso nelle nazioni in cui la “rivoluzione”, il malessere economico e sociale sta trionfando. La rivolta diffusa ha avuto anche conseguenze non previste come il flusso di armi e combattenti provenienti dalla Libia, dopo la caduta di Gheddafi, che ha contribuito a destabilizzare il vicino Mali.

Altra conseguenza è l’aumento della tensione fra sunniti e sciiti in una regione già dilaniata dalle rivalità tra l’Iran sciita e i poteri sunniti, Arabia Saudita in testa, alleati o vicini agli Usa.

In Bahrein, i sunniti hanno contribuito a schiacciare le proteste guidate dalla maggioranza sciita, e in Siria, i ribelli sunniti stanno combattendo soprattutto il principale alleato arabo dell’Iran, il presidente Bashar al-Assad, il cui dominio è costruito intorno alla minoranza sciita alawita cui appartiene.

Molti arabi sono orgogliosi della loro nuova libertà di parola e del fatto di poter scendere in piazza per protestare, ma si è rivelato più difficile di quanto molti credevano il creare prosperità, il riempire il vuoto di potere lasciato dai precedenti regimi e trasformare stati di polizia in democrazie stabili regolate da uno Stato di diritto.

La disoccupazione, la povertà e l’inflazione, che hanno contribuito ad alimentare le rivolte in Tunisia e in Egitto ad esempio, restano ancora elevate nelle economie colpite da quelle proteste e disordini che hanno scoraggiato sia i turisti e che gli investitori stranieri.

La stessa Tunisia è ripiombata nel caos dopo l’assassinio del leader dell’opposizione Chokri Belaid. A ben guardare i problemi della Tunisia e di altri Paesi arabi che vivono le prime fasi di una transizione politioc-economica non dovrebbero destare nessuna sorpresa: è irrealistico pensare che in due anni questi paesi si possano trasformare in democrazie perfettamente funzionanti.

Sebbene partiti d’ispirazione islamica ben organizzati, tra cui gli egiziani Fratelli Musulmani e il tunisino Ennahda, abbiano vinto le elezioni, tenute dopo la rivolta, si sono scontrati con la complessità della gestione di economie moderne e del governo di società “indisciplinate”, dopo anni di predicazione per cui “l’Islam è la soluzione” a tutti i problemi.

A tutto ciò occorre anche inserire il contrasto politico tra diverse visioni: da quella relativamente moderata, oggi al governo, a quella ultra-ortodossa, come quella salafita, che preme per riscrivere i codici e le costituzioni in senso restrittivo.  

Alcuni gruppi, addirittura, passano alle vie di fatto: gli attentati alle missioni diplomatiche degli Stati Uniti a Tunisi, al Cairo e a Bengasi nel mese di settembre 2012, seguite all’uscita di un ridicolo filmetto anti-Islam ne sono stata una dimostrazione. 

I contrasti con l’opposizione liberale in Tunisia ed Egitto costituiscono poi anche una ulteriore prova della fragilità dei sistemi emersi due anni fa. 

Addirittura nel fermento sociale vengono fuori i black bloc egiziani che vogliono porsi come servizio di sicurezza durante le manifestazioni contro i Fratelli musulmani.

Ma la confusione a Tunisi o al Cairo è en poca cosa se paragonata alla guerra civile siriana. 

Se centinaia di persone sono morte nei disordini avvenuti nella fase post-Mubarak in Egitto, in Siria le Nazioni Unite dicono  che sono stati uccisi circa 70.000 cittadini siriani da quando è scoppiata la rivolta contro Assad, iniziata con una serie di proteste pacifiche nel marzo 2011.

Appare ormai chiaro che all’opposizione siriana manchi una leadership unitaria, acume politico e abilità amministrativa, tanto che l’esito del conflitto è tutt’altro che chiaro.