
A quasi tre anni dall’accordo di Pretoria che aveva sancito il cessate il fuoco nel Tigray, la regione etiope torna sull’orlo del baratro. Una frattura profonda all’interno del Fronte di Liberazione Popolare del Tigray (TPLF) ha riacceso tensioni, violenze e il timore di una seconda guerra civile.
L’accordo del 2022 sembrava aver posto fine al conflitto tra le forze tigrine e il governo federale etiope. Tuttavia nel marzo 2025 la scena politica regionale è stata sconvolta da uno scontro interno tra due fazioni del TPLF. Da un lato Getachew Reda, presidente dell’amministrazione ad interim sostenuto da Addis Abeba, dall’altro Debretsion Gebremichael, leader della linea dura, che ha predisposto l’occupazione di città chiave come Macallé e Adigrat. Reda ha risposto con sospensioni di alti funzionari e richieste di appoggio al governo centrale, mentre la fazione di Debretsion continua a mobilitare milizie e occupare posizioni strategiche. Il 2 luglio alcune fonti locali hanno diffuso la notizia, non confermata, di mobilitazione delle forze del Tigray provenienti da diversi gruppi del TPLF lungo il confine tra Etiopia ed Eritrea. Addis Abeba ha dichiarato lo Stato di Emergenza per la città di Aba Ala nella provincia di Enderta in quanto la fazione guidata da Debretsion ha minacciato di lanciare un attacco nell’area. Il rischio di un’escalation rimane piuttosto concreto se non si apre un accordo adeguato tra tutti gli attori in campo.
Parallelamente alle tensioni politiche, la popolazione tigrina continua a vivere in condizioni critiche: circa un milione di sfollati interni, infrastrutture distrutte, accesso limitato a cure mediche, istruzione e assistenza. Particolarmente allarmante è la situazione delle donne, ancora stupri sistematici, mutilazioni genitali e violenze perpetrate soprattutto da truppe eritree che operano illegalmente in territorio tigrino.
In risposta all’escalation, diversi attori della società civile tigrina hanno lanciato la campagna “Peace and Dialogue”, invitando le parti al dialogo e al disarmo verbale. Anche il premier etiope Abiy Ahmed Ali ha lanciato un accorato appello: “Agite ora, prima che il conflitto ricominci. Dopo sarà troppo tardi”.
Ma la crisi non è soltanto etiope, coinvolge ormai una rete di attori internazionali con interessi strategici nel Corno d’Africa. L’Unione Africana ha svolto un ruolo fondamentale nei negoziati di pace, ma fatica a contenere le fratture interne. Le Nazioni Unite continuano a monitorare violazioni dei diritti umani attraverso la Commissione Internazionale ICHREE, ma non hanno ancora ottenuto l’unità necessaria per una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno imposto sanzioni a funzionari etiopi ed eritrei accusati di crimini di guerra, e minacciato la sospensione di fondi umanitari. Washington ha proposto la formazione di un “Quad” con Regno Unito, Emirati Arabi Uniti e Europa per coordinare un’azione diplomatica multilaterale. L’Eritrea, protagonista controverso e ancora presente sul territorio, è accusata di violenze sistematiche e di sostenere la fazione radicale della TPLF. Il presidente Isaias Afwerki ha respinto ogni richiesta di ritirSo, aggravando le tensioni con Addis Abeba.
Altri attori geopolitici coinvolti sono la Cina, la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti, i quali hanno fornito droni militari all’Etiopia e sono coinvolti in progetti infrastrutturali. La Russia e l’Iran cercano accesso strategico al Mar Rosso, anche attraverso la militarizzazione della costa eritrea. La Somalia e il Sudan dal canto loro giocano un ruolo secondario ma potenzialmente destabilizzante, soprattutto nei confini contesi.
La crisi del Tigray è il riflesso di un conflitto etnico, politico, militare e geopolitico. Finché non si troverà un equilibrio tra gli interessi locali e internazionali, gli accordi di pace non avranno fondamenta stabili. Senza un’azione diplomatica forte e coerente da parte della comunità internazionale, il rischio di una nuova esplosione di violenza resta alto.
Beatrice Domenica Penali
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