Dall’Economia Nominale all’Economia Reale

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ITALIA – Roma. 16/12/13. Di crisi economica si è parlato moltissimo in questi ultimi tre anni, ed ancora gli impatti nella vita reale sono tali da non poter affermare “che ci sono i primi segni di crescita”.

Poche tuttavia sono state le spiegazioni fornite, finalizzate a comprendere cosa sia davvero accaduto. Quanto riportato nel seguito sarà dunque il nucleo di quei concetti utili a comprendere gli impatti finanziari nel mondo reale, in modo tale da questi concetti possano guidarci, successivamente, in una lettura autonoma dei segnali dei mercati finanziari.

Data un’impresa, definiamo ROE (Return on common Equity, Redditività del Capitale Proprio)
ROE = (Utile d’esercizio/Capitale proprio) X 100 ovvero il rapporto in percentuale fra il reddito netto ed il capitale netto (mezzi propri) di un’azienda. È l’indicatore che esprime in il “risultato economico” di un’impresa. Allo stesso modo, definiamo ROI (Return of Investments, Redditività del Capitale Investito Operativo)

ROI = (Reddito operativo/Capitale investito) X 100 come il rapporto in percentuale fra il risultato “di gestione” (sulla base del conto economico aziendale) ed il capitale netto operativo (totale degli impieghi economici al netto degli ammortamenti e degli accantonamenti di un’impresa). Questo secondo indice è evidentemente più complesso, in quanto esprime la redditività e l’efficienza economica di un’azienda. Per essere correttamente interpretato deve essere considerato necessariamente su più esercizi finanziari.
Il ROI viene normalmente utilizzato per valutare ex-ante le possibilità di realizzazione di un progetto (studio di fattibilità, ROI “ipotetico”), confrontando i flussi di cassa “specifici” per il progetto medesimo, individuando così il “break even point”, ovvero il momento in cui il progetto diventerà redditizio. La valutazione “ex-post” del ROI consentirà il confronto fra il dato previsionale e quello “a consuntivo”.

In ultimo, si definisce ROD (Return on debt, ovvero il Costo del Capitale di Debito)
ROD = (Oneri finanziari totali /Fonti esterne) X 100 Si tratta del tasso di rendimento dei flussi finanziari, legati alle attività o alle passività onerose aziendali.

Giungiamo dunque, e finalmente, ad illustrare in breve il teorema di Modigliani-Miller:
ROE = ROI + [(ROI – ROD) * Debito/Capitale Netto]
Ora, prima di inoltrarci in un tentativo esplicativo del modello sopra rappresentato, ci sono sicuramente alcuni parametri intuitivi che possono essere rapidamente illustrati.
Se definiamo il Debito/Capitale Netto la “leva finanziaria” dell’impresa, possiamo dire, fin da subito, che la Redditività dell’impresa è una funzione lineare della leva finanziaria. Ma attenzione: per come è strutturato il teorema di Modigliani-Miller, la leva finanziaria “sale” all’aumentare del Debito (o alla riduzione del capitale […]).

Cosa significa? Che all’aumentare del debito sale il profitto? E fino a quando? Entriamo dunque nel vivo della spiegazione. Si considerino due imprese, identiche in tutto salvo la struttura del capitale. La prima impresa, detta U, è unlevered, ossia il suo capitale è interamente costituito da capitale di rischio, o proprio (cioè è interamente versato dagli azionisti nel caso di una società per azioni). L’altra impresa, detta L, è levered, ossia il suo capitale è in parte costituito da equity o capitale di rischio, in parte da debito.
La prima proposizione del teorema di Modigliani-Miller afferma che il valore delle due imprese è il medesimo:Vu = Vl, dove Vu è il valore dell’impresa U, e Vl il valore dell’impresa L. Vu è pari dunque al costo di tutte le azioni di U, e Vl è pari al costo di tutte le azioni di L e al capitale necessario per ripagarne il debito per intero.
Se Vu = Vl, i rendimenti da entrambi gli investimenti sarebbero identici. Dunque il valore di tutte le azioni di L (o equity di L) deve essere uguale a quello di tutte le azioni di U, meno il debito di L. ma le due aziende non sono uguali!
Mentre la seconda azienda è particolarmente esposta al rischio di insolvenza per il proprio debito, e dunque di bancarotta, la prima azienda ha capitale investito direttamente dai propri azionisti. Questo fatto, nell’economia del mondo reale ha un valore. Come privato cittadino, se dovessi investire in un impresa, su quale investirei? Su una fortemente indebitata o ad alto rischio di bancarotta?
Sembrerà assolutamente banale, ma la crisi del mercato mondiale a partire dal 2008 con il fallimento di Lehman Brothers è stata generata dall’applicazione “pedissequa” del modello di Modigliani-Miller alla struttura del Capitale Sociale della banca d’investimento, senza tener conto del rischio di insolvenza della medesima. Eppure, le principali agenzie di rating mondiali il giorno prima della bancarotta esprimevano ancora un parere positivo sui titoli della banca, proprio in applicazione della formula.
Forse perchè le agenzie di rating sono a loro volta imprese i cui azionisti sono proprio alcune imprese quotate in borsa?
Dunque, le informazioni agli azionisti su come viene calcolato il rating, e quindi sui valori reali dei parametri che alimentano il modello Modigliani-Miller, dovrebbero essere pubbliche. Il vero problema è stato dunque quello della trasparenza delle valutazioni, della comunicazioni, della diffusione della cultura, anche nel settore economico.
Un punto di attenzione particolare andrebbe posto sull’economia “reale” degli Stati, anch’essi posti alle medesime regole economico-finanziarie dei mercati.
Il default dell’Argentina (ed il ruolo del Fondo Monetario Internazionale in tal senso), ne è un esempio. Anche alcuni Paesi dell’euro-zona hanno contratto debiti enormi, ricorrendo puntualmente alla “svalutazione” stampando ulteriore moneta. Quando questo circuito si è interrotto, con l’introduzione definitiva dell’Euro, l’evidenza dei debiti è diventata di ordine pubblico, in quanto di interesse per tutti gli altri Paesi Europei (ciascuno dei quali investe acquistando titoli di stato degli altri Paesi della UE).
Pur tuttavia, nonostante la lezione derivata (ma non appresa) dalla banca d’investimento americana, e migliaia di pagine di analisi (dal Journal of Economic Literature al Dodd-Frank americano, fino a Il Sole 24 Ore, ecc.), ad oggi non si riscontrano ancora scelte che possano incidere fortemente sui mercati per riportare il valore del lavoro nel mondo reale.
Pensiamo al caso italiano. L’ormai noto “spread”, ovvero il differenziale fra il rendimento dei titoli di stato italiani e quelli tedeschi sottolinea quanto l’Italia sia esposta al rischio. Maggiore è il debito, maggiore è il rendimento dei titoli. È per questo che le banche preferiscono investire nel debito, piuttosto che dare fondi alle imprese: rende molto di più.
Ma fino a quando può durare? E quali possono essere le alternative?
L’esempio di costituzione del CELAC (Comunità degli Stati Latino Americani e Caraibici), nel 2011, che porta i medesimi ad uscire dal Fondo Monetario Internazionale per non contrarre più debito è una esperienza troppo giovane per essere valutata positivamente o negativamente.
In conclusione, questa breve dissertazione di tipo economico-finanziario ha posto l’attenzione su due aspetti caratterizzanti la base del mercato del lavoro: la globalizzazione economica e la “virtualizzazione” finanziaria.
È chiaro che i problemi fin qui esposti, seppur non brevemente risolvibili, potrebbero essere in qualche modo “assimilati” in termini di esperienza ed utilizzati come elementi di ripartenza per la costruzione di nuovi modelli organizzativi, economici e sociali, che non pongano esclusivamente il mercato come deus ex machina di una realtà di cui non è parte, ma solo invenzione.