Ain El Helweh e Burj El Barajneh . Descent into Hell

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LIBANO – Beirut 08/6/13. Si parla continuamente della crisi siriana, dei vertici per la ricomposizione della situazione, di programmi, di progetti dimenticando però il grave problema umanitario che la situazione siriana sta aggravando: quello dei profughi palestinesi.

Si stima che 7000 profughi al giorno attraversano i confini della Siria. Già prima di questo nuovo esodo siriano erano in abbondante sovrannumero ora la situazione è davvero di emergenza. Nell’ultimo viaggio in Libano mi sono recata presso il campo profughi di Ain El Helweh a Sayda (Sidone) e in quello di Burj El Barajneh a Beirut. La situazione non è molto diversa tra l’uno e l’altro dal punto di vista umanitario, purtroppo quello di Ain El Helweh ha anche una situazione allarmante dal punto di vista della sicurezza. Qui infatti per poter accedere bisogna avere il permesso dell’esercito libanese e quella del responsabile del campo. Ci vengono a prendere all’ingresso con la scorta armata, non tutti i richiedenti alla fine decidono di entrare l’avviso era chiaro gruppi di salafiti all’interno premono per il controllo e c’è qualche “scaramuccia”. Siamo solo in quattro e solo donne. La nostra “guida” è Mounir Magdah, capo Regionale (Libano, Siria, Palestina, Giordania e Cisgiordania) dei Campi Profughi, delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, gruppo militante palestinese vicino al partito politico al-Fatah. Vedendoci sorride e ci dice “sapevo che le donne italiane hanno molto coraggio, adesso ne ho la conferma, una sola vale quanto due uomini” facendo esplicito riferimento agli assenti, quasi a sdrammatizzare la situazione ed allentare la tensione iniziale. La scorta ci fa strada, tutto quello che sembrava normale solo un attimo prima qui diventa fortuito, straordinario: acqua potabile, corrente elettrica costantemente distribuita, viabilità tutto si ferma lasciando il posto alla precarietà e all’insicurezza. Le strade sono strette e polverose il groviglio di fili elettrici sovrasta le nostre teste, è l’impianto elettrico più colorato del mondo che porta la corrente dentro le abitazioni, quando funziona! Ma questo è solo l’inizio di un lungo viaggio attraverso l’inferno. Tra l’intreccio di vicoli siamo arrivati in un luogo che neppure Dante sarebbe riuscito ad immaginare: un “campo nel campo” destinazione degli ultimi arrivati. Si tratta di circa 22.000 profughi siriani e palestinesi, molti provenienti dai campi di Yarmuk e Sbayna. Alcuni sistemati all’interno di camere di un caseggiato chiamato “casa bianca” 15/20 per stanza, tutti gli altri stanno nella tendopoli o in costruzioni precarie con coperture e muri di teli di plastica o di cartone. Fa molto caldo e dentro le tende l’aria è irrespirabile, non ci sono alberi e il sole cade a picco. I servizi igienici sono in comune e non si commentano; non ci sono frigoriferi e la conservazione del cibo, quando arriva, è praticamente impossibile. Quando chiediamo di cosa hanno bisogno la loro risposta è quasi unanime “vogliamo tornare a casa, la nostra casa è la Siria” per quanto riguarda i palestinesi la frase che più mi colpisce è quella di un ragazzo “la Palestina rimarrà sempre il mio sogno, ma la Siria è la mia Patria”.  Dichiarano che in Siria vivevano una vita normale, avevano tutti i diritti garantiti: sanità, istruzione, lavoro. Erano trattati come cittadini alcuni di loro lavoravano anche come impiegati presso le istituzioni governative, altri avevano dei negozi o svolgevano varie professioni, ora qui non hanno più nulla neanche da mangiare. 

Mounir Magdah risponde alle nostre domande glissando sulla sicurezza interna, sottolinea invece che il numero dei profughi è la vera emergenza parla 80.000 residenti, e di 22.000 nuovi arrivi. Non ci sono aiuti esterni solo l’Unrwa ha finanziato le strutture murarie del secondo piano della “casa bianca”, ora i soldi sono finiti e non riescono ad andare avanti con i lavori. L’unico ospedale del campo non ha fondi  per comprare le medicine “non ci è consentito di ammalarci”. Le ore sono volate fra questa gente semplice e ospitale che raccontano con dignità la loro tragedia, la scorta ci riaccompagna verso il luogo dove una macchina ci riporterà all’esterno, Mounir ci fa dono dei gelsi di una pianta del cortile e di una gardenia che lui stesso coglie per noi e sorridendo ci dice “salutate i vostri colleghi”. Il dolce sapore di quei gelsi lo porterò con me a lungo.

La situazione del campo di Burj El Barajneh non è molto dissimile da quella appena descritta è un intricato labirinto di vicoli che si estende in un colle, fatto di ripide salite e discese, scale scoscese e strade dissestate. I fili elettrici sono dappertutto a pochi centimetri dalla nostra testa. Come ci dirà poi Hosni Abo Taka, Presidente del Comitato Popolare del Campo, quando vengono a contatto con l’acqua producono morte, dall’inizio dell’anno sono già 29 vittime da folgorazione. Anche qui gli aiuti da parte di altri stati arabi sono del tutto assenti, solo promesse; i pochi aiuti che arrivano provengono dall’Unrwa, dalla Croce Rossa Internazionale e da Hezbollah. Ci dice che la posizione ufficiale dei palestinesi riguardo alla crisi siriana è neutrale, “sono affari interni”. “In Siria i palestinesi godono degli stessi diritti dei cittadini siriani, mentre qui in Libano noi palestinesi non abbiamo alcun diritto. Ci è vietato svolgere ben 72 professioni (medico, ingegnere insegnante, farmacista, commercialista etc) per cui anche se i nostri figli studiano sono poi costretti a lavorare in nero e a svolgere altre mansioni; il tasso di disoccupazione è molto elevato. Prima avevamo uno sbocco verso i paesi del golfo da qualche tempo ci è vietato anche uscire dal paese”.  Pagano una assicurazione per l’assistenza sanitaria ma non possono usufruire del servizio. Non è consentito affittare case o appartamenti. Le scuole sono gestite dall’Unrwa sino alle superiori, per l’Università è stato istituito un fondo dal Presidente Abu Mazen riservato ai più meritevoli. Anche qui i continui nuovi arrivi di palestinesi e siriani che scappano dal conflitto sta aggravando al situazione. Al governo libanese chiedono diritti “non vogliamo la cittadinanza perché il nostro obiettivo è tonare in Palestina, chiediamo aiuto per resistere sino a quando sarà possibile il rientro nella nostra terra”. Abu Abdullah capo del Fronte Popolare sempre del campo di Burj El Barajneh aggiunge “la politica internazionale sulla causa palestinese ha sempre cercato di utilizzare la forma del dividi et impera, e noi come Fronte Popolare intendiamo continuare sulla linea della resistenza”. “Il popolo palestinese non si può semplificare con Hamas e al-Fatah” ci dice “perché esistono altri gruppi che sono nati prima e che lottano da sempre per la propria indipendenza e il rientro in patria”. “La divisione dei palestinesi avviene solo all’interno dei territori occupati. Noi siamo un movimento laico, non entriamo in merito alla religione qualsiasi persona che lotta per la nostra causa è ben accolta al di là della propria appartenenza”.

Foto di Yulia Shesternikova