
Bbc Culture ha affrontato il tema del perché le statue suscitano così tanto potere in un articolo che nasce sulla scia delle proteste Black Lives Matter. Un’ondata di proteste nata in seguito all’uccisone di George Floyd da parte di un poliziotto che lo ha bloccato con un ginocchio al suolo, bloccandogli la respirazione.
In modo particolare sono state colpite statue in Inghilterra e negli Stati Uniti; in Gran Bretagna quelle che ricordano il passato coloniale, dal rovesciamento di quelle a Bristol, a quello della scultura in bronzo che commemora il mercante di schiavi britannico del XVIII secolo Edward Colston, al deturpamento a Boston, Miami e in Virginia di statue che celebrano Cristoforo Colombo e i leader confederati della Guerra di Secessione.
Non solo: i manifestanti chiedono «la rimozione di tutte le statue che glorificano figure la cui reputazione (e fortuna) è stata costruita sullo schiacciamento dei popoli di colore e sul soffocamento delle culture indigene», asserisce Kelly Grovier il 12 giugno.
Ma da dove nascono le statue e perché realizzarle? Le prime note somiglianze materiali di un essere umano, una piccola statuetta di un corpo femminile scoperta in una grotta nella foresta sveva in Germania nel 2008, possono offrire indizi sull’essenza del nostro impulso a creare tali cose. Alta appena 6 cm e scolpita dalla zanna di un mammut lanoso 40.000 anni fa, la cosiddetta Venere delle Hohle Fels esagera grossolanamente le caratteristiche del corpo di una donna e si pensa che sia servita come totem della fertilità.
Fin dalla loro prima apparizione, le statue non riguardavano tanto gli individui che rappresentavano quanto il modo in cui ci vediamo o vediamo gli altri. Fin dai primi tempi, in altre parole, le statue sono state tanto concettuali quanto materiali, non tanto per gli individui che rappresentano.
E quindi nel delirio nato all’indomani dell’orrendo delitto a sfondo razziale di George Floyd le statue hanno simboleggiato la rabbia, la frustrazione, l’impotenza, di fronte all’ingiustizia non solo di chi manifesta ma anche di deve gestire un patrimonio artistico oramai scomodo perché alla fine ci rappresenta.
A Londra, il sindaco della capitale, Sadiq Khan, ha annunciato la convocazione di una commissione speciale per discutere lo smantellamento (e l’erezione) delle statue della città. Negli Stati Uniti, la Presidente della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, sperando di prevenire un violento saccheggio di Capitol Hill, ha chiesto la rapida rimozione di 11 statue che commemorano i leader confederati. «Le statue in Campidoglio dovrebbero incarnare i nostri più alti ideali come americani, esprimendo chi siamo e chi aspiriamo ad essere come nazione», ha detto il democratico californiano in una dichiarazione, spiegando la sua decisione. «I monumenti agli uomini che hanno sostenuto la crudeltà e la barbarie per raggiungere un fine così palesemente razzista sono un grottesco affronto a questi ideali. Le loro statue rendono omaggio all’odio, non al patrimonio. Devono essere rimosse».
Il fatto non trascurabile è che quelle statue rappresentano il genere umano, la nostra storia sia essa piacevole che disonorevole e spostarla da un museo all’altro non cambia le nostre radici, non migliora la nostra essenza. La paura da sempre è cattiva consigliera e tuttavia mette in moto meccanismi di sopravvivenza in questo caso delle istituzioni civili.
Se si vuole fare del sano revisionismo storico forse, andrebbe fatto sui banchi di scuola studiando la storia per contestualizzare, conoscere e cercare di non ripetere gli errori ciclici della storia. Non si dovrebbe giudicare il passato utilizzando le categorie dell’oggi.
Lucia Giannini