BANGLADESH. I Rohingya sono oggi i palestinesi dell’Asia

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Con le elezioni in Myanmar previste per novembre, nessun partito che voglia vincere, e nessun governo eletto che voglia rimanere al potere a Naypyidaw dopo le elezioni, accetterà di riprendersi più di un milione di rifugiati rohingya, per lo più musulmani, che vogliono essere pienamente riconosciuti come cittadini del Myanmar.

È anche improbabile che la pressione internazionale abbia un qualche impatto, riporta Asia Times, dato che le potenze occidentali, che hanno condannato la carneficina dell’agosto 2017, hanno visto il Myanmar cadere nelle braccia della Cina che assieme alla Russia si sono impegnate a difendere il Myanmar nelle sedi internazionali e come membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Ora, vista l’ondata di infezioni da Covid-19 nello stato di Rakhine, da dove provengono i rifugiati, il confine tra i due Paesi rimarrà chiuso per il prossimo futuro. È stato imposto un coprifuoco alla capitale dello stato Sittwe; anche lì e in altre parti dello stato sono in vigore delle serrate parziali, riporta Asia Times.

Ma se i rohingya non potranno tornare in Myanmar, la loro situazione sarà sempre più simile a quella dei palestinesi in Libano e in altri Paesi del Medio Oriente, dove una popolazione di rifugiati apparentemente permanente si è ritagliata uno Stato nello Stato con le proprie organizzazioni politiche, la propria amministrazione e la propria agenda. Radicalizzazione compresa. La preoccupazione del Bangladesh è che i rifugiati radicalizzati possano stringere alleanze con i gruppi radicali islamici interni e diventare un rischio per la sicurezza del Paese.

Nel novembre 2017, il Bangladesh e il Myanmar hanno firmato un accordo di rimpatrio. L’anno successivo, le Nazioni Unite si sono impegnate in quello che doveva diventare uno sforzo per creare condizioni favorevoli al ritorno dei rohingya. Ma solo una manciata di persone sono state rimpatriate attraverso accordi locali.

Il bengalese Daily Star ha affermato che il Myanmar sta usando la pandemia di Covid-19 «come pretesto per non tenere tali riunioni». Il quotidiano bengalese ha anche detto che Dacca ha raccolto e inviato informazioni su «600.000 rohingya in Myanmar, ma quest’ultimo ha fornito al Bangladesh informazioni verificate di soli 30.000» e ne ha poi respinto dal 30 al 40%.

Secondo i dati ufficiali del Bangladesh, 860.365 Rohingya vivono in 34 campi vicino al confine con il Myanmar e altri 230.000 vivono in città e villaggi nel sud-est del Paese. Il rapporto stima che «l’80% di questi rohingya sono donne e bambini», il che pone la questione di dove si trovino tutti gli uomini. Inoltre, una squadra di investigatori dell’Onu ha affermato a settembre che 600.000 rohingya sono ancora all’interno del Myanmar, dove «rimangono in condizioni di deterioramento e deplorevoli». Se queste cifre sono corrette, il numero totale dei rohingya, una minoranza tradizionalmente concentrata in tre città del nord dello stato di Rakhine, sarebbe pari o superiore a 2 milioni, rendendoli più numerosi di altre minoranze etniche riconosciute come i Kachin, i Chin, i Pa-O, i Palaung e i Kayah, conosciuti anche come Karenni.

L’empasse emerso al confine tra Myanmar e Bangladesh può ancora portare l’Asia ad avere una sua versione di una situazione di tipo palestinese, con tutti i disordini e le insicurezze che una tale situazione comporterebbe.

Maddalena Ingrao