REGNO UNITO – Londra 21/10/2015. Amnesty International ha pubblicato il 21 ottobre uno studio dedicato alla migrazione dimenticata dei Rohingya intitolato Deadly journeys: The refugee and trafficking crisis in Southeast Asia, in cui mette in evidenza le condizioni «infernali e inumane» in cui si trova questo gruppo etnico asiatico.
Amnesty denuncia l’abuso fisico quotidiano affrontato da Rohingya intrappolati su delle barche nel Golfo del Bengala e nel Mare delle Andamane. La relazione e basata su interviste, effettuata ad agosto 2015, a 179 richiedenti asilo, e decine di altre con residenti locali, organizzazioni della società civile, funzionari governativi e agenzie internazionali. La relazione si basa anche su dati provenienti da cifre dell’Onu, fonti governative e non governative sul traffico che interessa il golfo del Bengala e il Mare delle Andamane.
La maggior parte delle persone che hanno raggiunto l’Indonesia a maggio 2015 erano musulmani Rohingya, una minoranza religiosa e etnica del Myanmar buddista. Le autorità del Myanmar ne negano l’esistenza, riferendosi a loro come bengalesi, e hanno promulgato leggi discriminatorie che rende apolidi la maggioranza dei Rohingya. Questa etnia è stata sottoposta ad abusi per decenni. La Thailandia ha lanciato vaste operazioni contro i trafficanti da maggio 2015, in seguito alla scoperta di decine di Rohingya e migranti bengalesi vicino al confine meridionale del paese, con la Malesia. Da allora, i trafficanti hanno abbandonato barche piene di persone in mare, lasciando migliaia di migranti senza cibo, acqua o cure mediche. «Mentre l’Onu ha stimato che almeno 370 persone abbiano perso la vita tra gennaio e giugno 2015, Amnesty International ritiene che la cifra reale sia molto più alta» si legge nello studio «Centinaia – se non migliaia – di persone sono disperse, e possono essere morte durante il viaggio o essere state vendute per il lavoro forzato». Il rapporto ha anche rivelato i rapimenti avvenuti in Myanmar o in Bangladesh, o in Malesia; i rapiti poi venivano venduti ai lavori forzati.
Amnesty ha sollecitato gli stati del sudest asiatico ad agire ora, e a non attendere che accada un nuovo disastro in mare.