
Pur essendo “patrimonio comune dell’umanità”, fondali marini sono diventati la nuova frontiera contesa.
Ne è un esempio la Clarion-Clipperton Zone (CCZ), una vasta distesa di fondali marini internazionali situata tra le Hawaii e il Messico, ricca di noduli polimetallici che contengono minerali essenziali come nichel, cobalto, rame e manganese. Queste risorse sono più che semplici materie prime; sono componenti vitali delle strategie nazionali per l’indipendenza energetica, la leadership tecnologica e la deterrenza strategica, riporta AT.
A differenza dei domini terrestri, dove i confini nazionali delimitano l’accesso, i fondali marini rimangono governati da un mosaico di convenzioni internazionali e quadri normativi non vincolanti. Questa ambiguità giuridica, unita alla vastità della CCZ (circa 4,5 milioni di chilometri quadrati), riformula la geografia come fattore determinante del potere. Qui, il territorio impone le proprie regole: nessuna nazione può rivendicare la sovranità legale, eppure ogni attore tecnologicamente capace può esercitare un controllo funzionale.
La funzione strategica dei fondali marini non risiede nel possesso simbolico, che richiede il coinvolgimento di organismi multilaterali come l’Autorità Internazionale dei Fondali Marini (ISA), ma nella continua supervisione operativa attuata attraverso sommergibili, piattaforme di dragaggio e infrastrutture marittime sostenute dagli stati. Attraverso questi strumenti, le nazioni potrebbero trasformare lo status giuridico dei fondali marini da bene comune globale in rivendicazioni geopolitiche di fatto, non per condividere, non per proteggere, ma per garantire.
La rivalità tra Stati Uniti e Cina riguarda anche e sopratutto i fondali marini. Queste due potenze affrontano l’estrazione mineraria in acque profonde da posizioni istituzionali, culture strategiche e tempistiche fondamentalmente diverse.
La Cina, con il suo rigoroso allineamento del potere statale e la pianificazione industriale a lungo termine, si è integrata nel quadro multilaterale dell’ISA. Detiene più licenze di esplorazione dei fondali marini di qualsiasi altro paese e ha coltivato la sua influenza all’interno degli organi normativi dell’ISA. Gli attori cinesi non si affidano a impegni retorici nei confronti del diritto internazionale; utilizzano la partecipazione procedurale come meccanismo per orientare l’esito dei quadri normativi. Il loro obiettivo è chiaro: plasmare le regole prima che siano definite, garantendo che i vantaggi tecnologici, legali e operativi della Cina siano permanentemente codificati nella struttura della governance globale dei fondali marini.
Gli Stati Uniti, al contrario, affrontano i fondali marini da una posizione strutturalmente distinta. Esclusi dall’ISA in virtù della mancata ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), gli Stati Uniti hanno adottato una strategia unilaterale, rilasciando autorizzazioni legali nazionali e direttive esecutive per accelerare l’estrazione mineraria dai fondali marini. Questo approccio riflette una risposta alla vulnerabilità strutturale, ovvero la dipendenza da catene di approvvigionamento contrapposte per i minerali critici.
Laddove la Cina esercita un’influenza lenta e cumulativa attraverso l’immersione istituzionale, gli Stati Uniti agiscono con urgenza, impiegando capitale privato e agilità normativa per compensare la loro assenza formale dalla governance multilaterale; laddove la Cina cerca di controllare il quadro normativo, gli Stati Uniti cercano di operare intorno ad esso.
Il motivo di fondo è lo stesso: isolamento strategico dalla dipendenza dalle risorse e posizionamento competitivo in un ordine mondiale in rapido irrigidimento. Nessuna delle due strategie è intrinsecamente più sovversiva dell’altra, ma ciascuna percepisce l’altra come destabilizzante. Quindi, l’arena della governance delle acque profonde non diventa un luogo neutrale per il coordinamento, ma uno spazio conteso in cui legittimità procedurale e autonomia strategica si scontrano.
Il danno ambientale derivante dall’estrazione mineraria dai fondali marini non è solo probabile, ma, secondo le attuali pratiche e i quadri normativi, praticamente inevitabile. Le conseguenze ecologiche sono ben documentate, ma rimangono politicamente inestimabili. Questi effetti si manifestano su scale spaziali e temporali che trascendono la responsabilità immediata. I danni subiti nelle profondità non saranno registrati nei cicli elettorali o negli utili trimestrali.
Questa esternalizzazione dei costi ambientali è strutturalmente radicata. Stati e aziende raccolgono benefici concentrati (minerali strategici, supremazia tecnologica, guadagno economico), mentre le responsabilità ecologiche sono distribuite su un bene comune globale e rinviate a un futuro indeterminato.
Il precedente soppianta il principio. I fondali marini saranno plasmati da dispiegamenti, licenze e macchinari che già scendono in profondità. Per gli stati che puntano alla sicurezza mineraria e all’autonomia strategica, la soluzione è chiara: rinviare il calcolo ecologico e proteggere la base di risorse fin da ora.
Lucia Giannini
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