Il cane da guardia del potere ormai abbaia solo a chi dice il padrone

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ITALIA – Roma 31/7/2013. Il soldato Bradley Manning, la talpa all’origine di Wikileaks, è stato ritenuto colpevole e rischia 136 anni di carcere. Gli è stata, però, tolta l’accusa di aver “aiutato il nemico”.

Si tratta di un precedente interessante per il caso Snowden, l’agente Nsa che ha reso pubblici documenti della potente agenzia governativa statunitense, e per tutti i casi legati al disvelamento di documenti riservati da parte di impiegati pubblici delle diverse amministrazioni pubbliche made in Usa. Alcuni riguardano il coinvolgimento anche di giornalisti che hanno pubblicato le notizie fornite loro dalle talpe e che hanno poi provocato terremoti nell’Amministrazione Usa, indipendentemente dal loro orientamento, repubblicano o democratico. L’accusa di spionaggio, formulata senza la prova, tutta a carico dell’accusa, del “danno contro gli Usa”, e senza che, come fanno notare alcuni media statunitensi, ci sia stata alcuna vittima, lascia più pensare ad una intimidazione ai dipendenti pubblici che volessero denunciare situazioni di cui sono a conoscenza che una toppa alle falle del sistema d’intelligence a stelle e strisce.

È questo, infatti il timore più grande della comunità di attivisti statunitensi che vede proprio nel lungo elenco di accuse a Bradley la più grande minaccia alla tutela delle libertà civili in un paese che ne fa la propria bandiera, anche e soprattutto in politica estera. 

Il trattamento riservato a Bradley, che ricorda molto da vicino quello usato a Gitmo, inoltre è un nuovo deterrente sempre ad uso interno per evitare che informazioni ritenute lesive dall’amministrazione pubblica escano sulla pervasiva rete globale. I tempi di gola profonda e del Wartergate sono ormai lontani, visto che un giornalista che non rivela le fonti può essere costretto a farlo in diversi modi, dalla visita dell’Irs, il fisco per intenderci, ad un periodo da passare nelle prigioni di stato. Il canale giurisprudenziale nella common law aperto dal caso Bradley rende più agevole, oggi, sia la formulazione di spionaggio che di “intelligenza col nemico”, questa visione giuridica ha poi creato, come temono i media Usa, un vulnus nella libertà di stampa e nel decantato giornalismo investigativo di matrice statunitense: se chi fornisce le informazioni può essere accusato di spionaggio e chi scrive sulla base di simili informazioni non è più tutelato, dove è la libertà di stampa e di pensiero? Questa domanda, su cui ruota da tempo il dibattito nella comunità d’intelligence di Washington, resta al centro della definizione stessa di giornalismo: il cane da guardia del potere ormai abbaia solo a chi dice il padrone. L’illusione di libertà, come nei milgiori romanzi di Dick, si scioglie come neve al sole.