Gli scogli somali

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ITALIA – Roma 05/08/2015. Da metà luglio scorso, la situazione in Somalia è in evoluzione da un punto di vista militare.

La situazione politica aveva subito un forte arresto nel momento in cui le frizioni etniche e tribali sono affiorate nuovamente. L’auto proclamazione dell’autonomia del parlamento di Kisimayo (Jubaland), il supporto da parte del Puntland a questa operazione e la successiva decisione del governo federale di rompere le relazioni con il governo locale del sud della Somalia avevano fatto temere una controffensiva da parte degli Shebab. Spesso i fondamentalisti islamici legati ad Al Qaeda hanno approfittato della debolezza politica del governo di Mogadiscio per colpire e riprendere al governo federale alcune fette di territorio. In questo caso non è stato così.

Mentre tra la metà e la fine di giugno il governo di Mogadiscio aveva ritirato molte truppe da cittadine più o meno strategiche del sud del paese, forse in rappresaglia al deterioramento dei rapporti con il governo del Jubaland, da metà luglio si è capito che questi movimenti servivano per una riorganizzazione strategica. Il risultato è stato evidente nel momento in cui a metà luglio è iniziata l’offensiva più cruenta delle forze dell’AMISOM e del governo federale (con l’aggiunta di ulteriori forze etiopiche) nei confronti degli Shebab.

I risultati dell’offensiva sono tangibili. Il governo ha ripreso due città cardine nel sud ovest del paese: Bardhere e Dinsoor. Le due città sono state conquistate tra il 22 luglio e il 24 luglio scorso. Nei giorni scorsi i combattimenti si sono spostati più à nord nelle regioni del Hiiran e del Galgaduud. L’obiettivo è chiaramente quello di prendere il controllo degli ultimi pezzi di Somalia che sono ancora in mano agli Shebab e affermare pienamente il potere dello stato centrale su quelle aree.

Se da un punto di vista militare e politico la situazione sembrerebbe in via di normalizzazione, iniziano a venir fuori i primi scogli della gestione della Somalia e di quanti vogliono mettere le mani sulle risorse del sottosuolo somalo, in particolare le ricchezze in gas e petrolio. Già nelle scorse settimane il governo somalo aveva chiesto che fossero riviste le frontiere con il Kenya della zona economica esclusiva. Si tratta in effetti di una zona ricca soprattutto in gas che le società ENI e Total starebbero già esplorando.

Nel corso degli ultimi giorni un’affaire di corruzione in ambito petrolifero è in primo piano, sia perché è la prima volta che viene alla ribalta un procedimento del genere, sia perché è un’azienda britannica nel mirino delle Nazioni Unite e del Bureau anti corruzione inglese. La Soma oil&gas – SOMA è una società privata britannica basata in Somalia guidata da Lord Micheal Howard, ex leader e figura di spicco del Partito Conservatore britannico e membro della Camera dei Lord.

Nel 2013 la società aveva ottenuto dal governo somalo un contratto per l’esplorazione di gas e petrolio su dodici blocchi offshore per un totale di 60.000 chilometri quadrati con la possibilità di iniziare successivamente anche lo sfruttamento dei detti blocchi. Secondo il Britain’s Serious Fraud Office – SFO, la società avrebbe pagato più di mezzo milione di dollari a impiegati del Ministero del Petrolio e delle risorse minerarie somalo per ottenere il contratto e la relativa protezione delle zona da parte del governo.

L’indagine ora è gestita sia dal SFO che da un panel delle Nazioni Unite basato a Nairobi in Kenya e permetterà di far luce sulle criticità di un settore che nei prossimi anni in Somalia sarà in forte sviluppo. Per continuare nella direzione di un sano sviluppo del paese e del settore, il governo auto proclamatosi autonomo del Puntland, che aveva firmato anch’esso un accordo con la Soma, ha suggerito al ministero di competenza (sia proprio che del governo federale) di rescindere il contratto firmato nel 2013.