LIBRI. Il mondo del lavoro secondo Robledo

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Michele Robledo, il protagonista dell’ultimo libro di Daniele Zito, è un giornalista di quarantacinque anni, divorziato con un figlio, che inizia ad indagare su un nuovo fenomeno riguardante i lavoratori non convenzionali (chiamati ghost worker nel testo), tutti legati ad una organizzazione chiamata LPL (Lavoro per Lavoro).

Questa nuova categoria di lavoratori non sono inquadrati in maniera sistemica nel mondo lavorativo, al contrario non percepiscono salario, non sono registrati, non esistono sulla carta, ma lavorano per il semplice gusto di lavorare per recuperare, senza riuscirci, quella dignità che la nostra e la loro società gli ha voluto negare.

«Ho avuto l’impressione di essere di nuovo utile. È stata una sensazione inebriante. Come riconquistare il proprio posto nel mondo. Come tornare a casa».

Inseriti in ambienti lavorativi molto dispersivi, come centri commerciali, grandi catene di librerie o aeroporti, dove il dipendente è un ingranaggio intercambiabile e non specializzato, i lavoratori non convenzionali, rubando una pettorina o una tuta da lavoro, si riappropriano di un diritto. I non-luoghi, come li definiva Marc Augè, sono il territorio ottimale dove i ghost worker possono infiltrarsi.

Articolo 1 della Costituzione italiana: « L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro».

Articolo 4 della Costituzione italiana: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».

Questo nuovo iter vitae intrapreso dai lavoratori non convenzionali si esaurisce attraverso un processo di liberazione che prevede il suicidio nello stesso posto di lavoro attraverso disparati mezzi.

Il processo di liberazione, analizzandone la parte teorica, è una liberazione non dal lavoro, che mantiene la sua operazione salvifica dell’animo umano, bensì è una liberazione dalla schiavitù del salario.

Di stampo giornalistico, il reportage porta alla luce la disarmante situazione lavorativa italiana dove i diritti sono degli optional e dove gli ultimi, stritolati dalla spietata macchina del mondo lavorativo, cedono e smettono di rialzarsi. 

Definito il male del secolo, la depressione, trova spesso la sua massima espressione da situazioni del genere, dove chi ha creduto nella speranza viene prima illuso e poi dimenticato.

Paradossalmente l’idea del suicidio come processo di liberazione porta con sé il principio della scelta, dell’autodeterminazione.

Il testo è provocatorio, ma attinge da storie ipoteticamente vere, intrise di disperazione e miseria.

Nell’ultima parte del romanzo l’autore raccoglie le testimonianze dei lavoratori non convenzionali e dei familiari che hanno perso i propri cari senza essere riusciti a salvarli e a capirli.

Mentre leggiamo quelle pagine, il confine tra la realtà e la finzione comincia a diventare invisibile.

L’inadeguatezza, lo scollamento e la lontananza del mondo politico dalla vita reale, il ruolo cruciale dei social network all’interno del nostro tessuto sociale e l’idea che la voce e gli sforzi del singolo non corrispondano a nessun principio meritocratico, creano quel sentimento di rabbia corrosiva che porta con sé il seme della distruzione.

Gli ingredienti del romanzo-reportage sono così tremendamente reali da creare situazioni tremendamente possibili.

Riporto di seguito la lettera integrale di Michele che si è ucciso a trent’anni perché stanco del precariato e di una vita fatta di rifiuti. Era il 7 Febbraio 2017 a Udine. Questa è una storia vera.

«Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi.

Ho cercato di essere una brava persona, ho commesso molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte.

Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.

Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia.

Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile.

A quest’ultimo proposito, le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo.

Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive.

Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione.

Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare.

Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l’ho dimostrato. Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno.

Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie.

Non mi faccio ricattare dal fatto che è l’unico possibile, il modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all’individuo, non ai comodi degli altri.

Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.

Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene.

Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un’accusa di alto tradimento.

P.S. Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi.

Ho resistito finché ho potuto».

Simone Lentini

Robledo
Daniele Zito

Editore: Fazi
Collana: Le strade
Anno edizione: 2017
Pagine: 267 p., Brossura
EAN: 9788893250900