ISIS vista dal vertice COI

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ITALIA – Roma 01/03/2015. La situazione geopolitica venutasi a creare determina ansie e paure anche nel nostro paese. Abbiamo davvero dei nemici? Ma soprattutto siamo in grado di difenderci? L’intervista al Generale di Corpo d’Armata Marco Bertolini, Comandante del Comando Operativo di Vertice Interforze, fornisce una visione operativa, quindi tecnica chiara e precisa, estrinsecata dal ruolo di coordinatore delle missioni che i militari italiani sono chiamati a compiere.

La sua lunga esperienza all’estero nei vari teatri operativi, i suoi incarichi professionali ai vertici militari, ma soprattutto la grande capacità comunicativa precisa tracciano il profilo di un uomo di grande levatura professionale e al contempo umana di grande valore. La guerra non potrà mai essere in nessun caso la soluzione, ma l’investimento nella difesa e soprattutto nella protezione della sicurezza dovrebbero essere sempre collocati al primo posto, in particolare quando alcuni valori cominciano a traballare. La consapevolezza di un popolo e le sue radici si fondano in primis sull’orgoglio della propria storia e cultura, forse un incoraggiamento rivolto ad un grande popolo come quello italico a non dimenticare il grande valore contenuto in parole quali patria e bandiera.

Si parla di soluzione politica/diplomatica secondo lei non comincia ad essere tardi un non intervento armato per mettere riparo ad una situazione così grave? L’Egitto si è già mosso anche con truppe di terra e le lungaggini burocratiche delle NU rischiano di far perdere il controllo?

Non c’è dubbio che la diplomazia è un’arma spuntata contro chi non ne riconosce le regole e ne rifiuta riti ed usi, come nel caso di Da’ash. Fino a quando si sentirà abbastanza forte da controllare larghe fette di territorio e ampi strati di popolazione, come nel momento attuale, non c’è quindi da sperare in cambiamenti da questo punto di vista. Quanto all’Egitto, si muove, anche spinto dai propri interessi nell’area, primo tra tutti – ma non solo – la sicurezza. Credo che avrà un ruolo importante in quello che seguirà.

Cosa si nasconde dietro ISIS? Da chi è composto il loro “esercito”? Come è possibile che siano così bene armati e preparati?

Certamente è una realtà complessa, articolata in elementi locali e combattenti stranieri (i cosiddetti foreign fighters) in arrivo anche dall’Occidente, ma soprattutto da un terzo mondo islamico che vive con frustrazione il divario tecnologico ed economico che ci divide da esso e che spera, dopo decenni di incontrastato predominio occidentale, di “vendicarsi”. Quanto alla nascita di tale movimento, non c’è dubbio che è stato favorito dalla rimozione negli ultimi quindici anni di intere classi dirigenti del passato che, benché illiberali, riuscivano a mantenere sotto controllo un fondamentalismo islamico che ora si palesa per quello che è. Non credo di svelare un segreto dicendo che il Jiadismo trovava in personaggi come Saddam, Gheddafi, Mubarack e Assad nemici difficili da sconfiggere. Poi è arrivato il vento della democrazia, con le primavere arabe, a “liberare” quei paesi e sono iniziati i problemi, mentre noi applaudivamo. Alcuni Paesi occidentali ed arabi, poi, non si sono limitati ad applaudire e hanno anche supportato i movimenti più radicali per utilizzarli contro i loro nemici nell’area, fino a quando non ne hanno perso il controllo.

In Libia l’Italia si è molto impegnata nella formazione sia all’interno dei nostri confini che direttamente in loco sarà possibile utilizzare questo passaggio per creare un supporto logistico per un eventuale intervento delle NU?

La situazione in Libia è molto complessa, stante l’esistenza di molte realtà tribali che, dalla scomparsa di Gheddafi, si combattono senza esclusione di colpi. Fino a quando non si decideranno a rappacificarsi, vale a dire fino a quando non ci sarà un Governo riconosciuto da tutte le Katibe (le tribù, appunto), ci sarà poco da fare a meno di imporre con la forza una pace che per ora dimostrano di non volere. Nel far così, peraltro, sarà necessario “schierarsi” con uno dei contendenti, con le conseguenze che possiamo immaginare. L’addestramento in questione era stato fatto, su iniziativa del G8, quando una sorta di pacificazione nazionale sembrava a portata di mano, ma da allora tante cose sono cambiate, in peggio. Ora i colloqui sembrano aver preso nuovo vigore, forse anche grazie alla preoccupazione in Libia che consegue alla comparsa di ISIS all’interno dei suoi confini. Speriamo bene.

Perché il Califfato parla così tanto della presa di Roma e quanto ci si dovrebbe preoccupare?

Noi Italiani abbiamo rimosso, assieme all’orgoglio della nostra cultura, della nostra lingua, della nostra storia (che non è iniziata solo 70 anni fa) e della religione che dalla Penisola ha civilizzato tutto l’Occidente, la consapevolezza del valore simbolico e morale della nostra Capitale, Roma. Siamo tra i più entusiasti al mondo nel ritenerci più americani degli americani e lo dimostriamo con le scelte musicali, con il modo di atteggiarci, con l’esibizione di una religiosità “protestante” inconcepibile per i nostri vecchi, proprio nella culla del cattolicesimo. Roma, invece, per gli altri continua a rappresentare il simbolo della cristianità, nonostante il laicismo di cui ci piace ammantarci, e la traccia di una grandezza insuperata. Per questo piantare la propria bandiera a Roma avrebbe un significato particolare. Lo stesso è accaduto nel passato, quando Roma era contesa tra attaccanti e difensori che erano espressione di tutto il mondo di allora. Faremmo meglio a ricordarcelo: abbiamo una responsabilità ed un problema in più rispetto agli altri. Insomma, Amsterdam potrà anche essere più ricca, Parigi più luccicante e Londra più alla moda, ma Roma è Roma; anche per gli altri (anzi, soprattutto per loro, purtroppo). L’esigenza di difenderla non deriva quindi dalle minacce attuali, che non saprei se considerare reali o solo finalizzate a terrorizzarci (ci riescono benissimo!), ma è una costante che non avremmo mai dovuto dimenticare.

L’Italia ha sempre lavorato molto bene nei paesi in cui è stata chiamata per riportare la pace, in Libia l’attuale situazione consentirebbe di lavorare in tal senso?

Forse anche per quanto ho detto precedentemente, è indubbio che noi Italiani abbiamo sempre goduto di un certo appeal anche quando, da militari con l’arma in mano, abbiamo fatto il nostro dovere in operazioni. Le popolazioni ci hanno sempre accolto con amicizia ed hanno apprezzato l’umanità dei nostri soldati oltre alla loro professionalità ed al loro coraggio. Anche in Libia godiamo di un livello generale di simpatia che ci ha spesso protetto, ma resta il fatto che per la pace non bastano i buoni sentimenti ed un’attività di pacificazione svincolata da un credibile strumento militare sarebbe inutile.

La guerra, forse, non è in grado di risolvere il male, ma oggi si parla di cancro ISIS perché gli italiani hanno così paura di pensare alla guerra se alle volte per estirpare un male è necessario il bisturi per asportarlo?

È un problema culturale. Dopo la guerra, intendo la II Guerra Mondiale, si è affermato nell’Occidente il convincimento che la guerra fosse un retaggio del passato, superato dal progresso tecnologico ed economico. Questa sciocchezza si è particolarmente imposta nel nostro paese, sconfitto ma con la pretesa di essere uscito vincitore dal conflitto. E così, nella nostra Costituzione si arrivò a un pronunciamento forte e solenne contro la guerra, con il famoso art.11, che molti ingenui e tantissimi ipocriti hanno interpretato come una sostanziale abolizione della stessa, per noi e per gli altri. Se così fosse, non vedo perché non abbiano ripudiato anche le alluvioni e i terremoti, mettendoci al riparo dal ricorrente dissesto idrogeologico nazionale. A parte la battuta, tale interpretazione del dettato costituzionale, che voleva soprattutto avere un valore di principio e morale, visto che in un altro articolo si continuava a definire “sacro” il dovere della difesa della Patria e ci si dotava di un Esercito di notevoli dimensioni (allora), ha in un certo senso disarmato le coscienze ed ingenerato il convincimento che la guerra fosse un retaggio del passato, dal quale il progresso ci poneva efficacemente al riparo. Si imponeva così il mito del “made in Italy”, fiera dell’effimero e del superfluo ad uso di una società sempre più benestante ed effeminata, ma al tempo stesso nuovo elemento identitario nazionale, vocazione totalizzante a godere nel più assoluto disinteresse per quello che succede fuori dai confini del nostro fortunato paese. Con buona pace per le mille generazioni di contadini che si sono spaccate la schiena per renderci quelli che siamo. Ora, ci accorgiamo che non era vero e che tale interpretazione era errata e che l’Italia non galleggia in un ideale mare di “peace and love forever” tra fumi di cannabis e arpeggi di mandolino, ma è sballonzolata in un pentolone in ebollizione nel quale ogni giorno si cumulano tensioni spaventose, che richiedono anche il nostro intervento, o almeno il nostro interesse. Intanto, però, abbiamo ridotto all’osso le risorse della nostra Difesa, utilizzata quale vero e proprio bancomat per riparare ai danni creati al patrimonio nazionale dalle altre amministrazioni.

Di cosa avrebbe bisogno la Difesa? Più formazione? Più mezzi?

La Difesa ha semplicemente bisogno di essere riconosciuta come elemento fondante del Paese. Elemento senza il quale non esisterebbe né Patria né sovranità nazionale. Per molti dei motivi che ho accennato, invece, siamo sempre stati considerati uno strumento a cui ricorrere solo in caso di necessità estreme ed al tempo stesso incredibili come quelle di una guerra sul nostro territorio. Quasi un “nice to have” di cui dotarsi per compiacere gli alleati che vivono ancora (ahiloro!) nel mondo esterno e non vogliono riconoscere che noi viviamo in un’altra dimensione, quella dell’amore e della bellezza gratis, per tutti. Invece, le Forze Armate sono e dovrebbero essere riconosciute come uno dei più potenti ed efficaci strumenti di politica estera nel mondo reale, per un paese che una politica estera voglia avere e che riconosca di essere titolare di interessi nazionali non necessariamente coincidenti con quelli della cosiddetta Comunità Internazionale. Ciò riconosciuto, non ci verrebbero negati i mezzi per assolvere alla nostra missione.

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